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Contenuti sintetici

Il patto milionario di Google e gli editori per allenare le intelligenze artificiali

Pietro Minto

I rapporti di collaborazione che sta stringendo il gruppo di Mountain View ricorda la corsa all’oro del giornalismo social iniziata negli anni Dieci, quando soprattutto Facebook garantiva traffico ai siti di news e arrivava a porre condizioni ai giornali

Negli ultimi mesi sono comparsi molti siti che si spacciano per giornali online e pubblicano contenuti generati con le intelligenze artificiali. Spesso lo fanno sfruttando domini web un tempo noti e amati, com’è successo a The Hairpin, un blog femminista il cui dominio è finito nelle mani di un dj serbo che l’ha convertito in una fabbrica di titoli clickbait (ha detto a Wired di avere circa duemila siti del genere).

L’alluvione di contenuti “sintetici”, ovvero generati con le intelligenze artificiali, nel web è destinata a peggiorare, visto che Google sta stringendo rapporti di collaborazione con alcuni editori che riceveranno l’accesso alla versione beta (non definitiva, aperta a pochi) di alcune IA generative, e in cambio dovranno fornire “dati analizzati e feedback vari”, come ha rivelato AdWeek. Secondo l’accordo, gli editori saranno tenuti a utilizzare gli strumenti forniti da Google per “produrre un determinato volume di contenuti per dodici mesi”, cosa che frutterà loro un pagamento mensile che in totale dovrebbe essere sull’ordine dei milioni di dollari. Oltre ai soldi, ovviamente, le testate potranno pubblicare contenuti preziosi a costo zero.

Google ha tentato subito di ridimensionare la notizia, sottolineando che queste IA sono “pensate per aiutare editori piccoli e locali” e “non vogliono, e nemmeno possono, rimpiazzare il ruolo essenziale dei giornalisti”. Ma la novità si inserisce in un trend chiaro, che spinge aziende tecnologiche a inseguire il giornalismo perché hanno bisogno di contenuti di qualità per sviluppare le loro IA, mentre giornali e riviste sono alla disperata ricerca di nuove entrate e disposte ad accettare il patto faustiano. Lo scorso dicembre, OpenAI, la più celebre aziende del settore, creatrice di ChatGPT, ha proposto somme minori (tra 1 e 5 milioni di dollari) per accedere ai contenuti di alcuni giornali. A dicembre è stato il turno di Apple, che starebbe trattando con Condé Nast e Nbc News per cifre attorno ai 50 milioni di dollari.

Lo scenario ricorda la corsa all’oro del giornalismo social iniziata negli anni Dieci, quando soprattutto Facebook garantiva traffico ai siti di news e arrivava a porre condizioni ai giornali. E’ il caso del cosiddetto “pivot to video” del 2015, il momento in cui il social network decise di puntare sui video e incentivò – sia economicamente sia in termini di traffico garantito – i giornali a produrre clip. Centinaia di persone persero il loro lavoro di redazione e scrittura per fare spazio a producer e montatori. Pochi anni dopo era tutto finito. Nel 2019 Facebook ci riprovò e lanciò Facebook News, una sezione dedicata alle notizie, spendendo, secondo il sito The Verge, 105 milioni di dollari in tre anni (più altri 90 milioni per i video). Di questi, 10 andarono al Wall Street Journal, 20 al New York Times, 3 alla Cnn. Nel 2022 Meta cambiò ancora idea e anche quel rubinetto fu chiuso.

Ora sembra essere il turno delle IA, che però sono un affare radicalmente diverso dai feed dei social. Le stesse aziende citate (Google, OpenAI) offrono con una mano un accordo ad alcuni giornali mentre con l’altra propongono servizi che vorrebbero – per ora con risultati discutibili – sostituire i giornali stessi. Un esempio? La Search Generative Experience (Sge) di Google, una versione del motore di ricerca in grado di rispondere a domande invece di consigliare siti da visitare.

Da almeno dieci anni giornalismo e Big Tech sono stati impegnati in una danza vorticosa, una relazione tossica dalla quale la seconda ha saputo trarre tutti i vantaggi e ora può concedersi di offrire contentini economici alle testate. Le stesse dalle quali spera di rubare il segreto di un’attività che difficilmente può essere automatizzata. Le tecnologie in questione sono però più che capaci di riempire il web di ulteriore rumore, spam e clickbait. E disinformazione. Hanno già inziato a farlo.

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