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nuove frontiere della scienza

Un cervello rafforzato grazie alla tecnologia

Mattia Manoni

Pilotare un computer attraverso la mente potrebbe cambiare molte vite. C’entra Elon Musk con il suo Neuralink, ma non solo

La fantasia di riuscire a controllare gli oggetti intorno a noi grazie alla forza del pensiero è tanto grande da essere paragonabile a quella di riuscire a librarsi in aria. E soprattutto, in un futuro non troppo lontano, potrebbe rivelarsi qualcosa di più di una semplice fantasia. Si immagini quanto segue: una persona è seduta a una scrivania e guarda uno schermo sul quale si trova una pallina rossa. L’indicazione che riceve è di fare in modo che la pallina si muova, anzi che leviti, e per farlo le viene detto di concentrarsi, di volere semplicemente che ciò accada. Si immagini come il partecipante a questo esperimento inizi a focalizzare l’attenzione, a guardare fisso la pallina che vede di fronte fino a che, incredibilmente, accade: la pallina comincia ad attraversare lo schermo a mezz’aria; seppure oscillando in maniera irregolare si è staccata da terra. Ecco l’esempio di un esperimento di Brain Computer Interface (Bci) (Interfaccia cervello-computer), la disciplina che si occupa di indagare il modo in cui, grazie all’attivazione cerebrale, possiamo comunicare con un dispositivo esterno.  

L’esperimento appena descritto deve la sua realizzabilità a un elettroencefalografo, cioè uno strumento che grazie a degli elettrodi applicati sulla cute della testa è in grado di rilevare l’attività elettrica prodotta dall’encefalo. La questione, infatti, è tutta qua: riuscire a rilevare l’attività del sistema nervoso centrale e, facendola leggere a un software specificatamente programmato, tradurla nel risultato voluto, così da estendere le conseguenze dell’attività cerebrale oltre le possibilità offerte dal proprio corpo. Potenziando, integrando e talvolta sostituendo gli output del nostro sistema nervoso centrale (come un movimento). Non a caso il maggiore campo di applicazione delle tecnologie di Brain Computer Interface riguarda i benefici utilizzabili dalle persone con disturbi neuromuscolari come la paraplegia e la tetraplegia, o da coloro che hanno subito l’amputazione di un arto. In sostanza da tutte le persone che per diversi motivi sperimentano una motilità ridotta.

Ma come è possibile registrare e interpretare correttamente l’attività del cervello?  E quali sono gli strumenti che permettono di farlo?   

Durante qualsiasi attività, sia che si tratti di dormire, pensare, osservare o muoversi, il cervello produce un segnale elettrico che passa da un neurone all’altro portano con sé le informazioni necessarie per sapere (anche se non sempre) quello che si sta facendo. Non a caso, questo è il segnale principalmente utilizzato nelle interfacce cervello-computer, il mezzo grazie al quale comunicare con un dispositivo esterno al nostro organismo. Gli strumenti che permettono di rilevarlo sono diversi ma si dividono tra quelli che richiedono una procedura invasiva, cioè che richiedono un intervento chirurgico per essere applicati, e quelli che invece non la richiedono. Tra questi ultimi si trova l’elettroencefalografo (Eeg), strumento facilmente trasportabile che registra le affascinanti onde cerebrali – cioè il segnale elettrico ritmico e ripetitivo che si diffonde sulla corteccia cerebrale – grazie a una cuffia da mettere sul capo e sulla quale si trovano dei sensori. Di onde cerebrali ne esistono diverse e ciascuna è tipica di alcuni nostri comportamenti: ad esempio le onde Delta si osservano durante gli stati di sonnolenza, le Teta durante le tensioni emotive e l’utilizzo della memoria e le Beta si manifestano quando si è impegnati nella risoluzione di problemi. Dunque, programmare un software in grado di dare come risultato l’accensione di una luce o lo spostamento di un braccio elettronico quando riceve un particolare segnale – come, ad esempio, una particolare onda cerebrale – è l’obiettivo delle tecnologie di Brain Computer Interface.   

In questi giorni l’acronimo che le identifica, Bci, è arrivato all’attenzione del grande pubblico poiché l’arcinoto Elon Musk ha dichiarato su X che è stato impiantato un dispositivo cerebrale grazie a Neuralink, la società di cui è cofondatore e il cui obiettivo è “creare un’interfaccia cerebrale generalizzata per restituire l’autonomia alle persone con esigenze mediche insoddisfatte oggi e sbloccare il potenziale umano domani”. L’interfaccia in questione è rappresentata da un chip – noto come N1 Implant – grande circa quanto una moneta e “progettata per permettervi di controllare un computer o un dispositivo mobile ovunque andiate.” Andando sul sito di Neuralink è possibile vedere l’immagine del chip che viene presentato in versione matrioska di design (ci mancherebbe! Viene quasi voglia di averlo sul comodino di fianco ai libri). Esternamente è composto da “un involucro biocompatibile che riesce a resistere a condizioni fisiologiche diverse volte più difficili di quelle del corpo umano”. Al suo interno si trova una batteria “caricata dall’esterno in modalità wireless tramite un caricatore induttivo compatto che ne consente l’uso ovunque”. Invece, per quanto riguarda il chip vero e proprio, come dire, il cervello di questo impianto, dal sito leggiamo che “chip ed elettronica avanzati, personalizzati e a basso consumo elaborano i segnali neurali, trasmettendoli in modalità wireless all’applicazione Neuralink, che decodifica il flusso di dati in azioni e intenzioni”. Magia!

Scopriamo così che per funzionare, come quasi tutto ormai, il chip ha bisogno di un’app, chiamata N1 User App, “in grado di decodificare l’intenzione di movimento dai segnali cerebrali registrati dall’impianto N1, permettendo così di controllare un computer con il pensiero”.  

Se nell’elettroencefalografo gli elettrodi, i sensori utili a rilevare l’attività cerebrale, sono una ventina e si trovano all’esterno del cervello, separati quindi dalla fonte del segnale da strati di osso, pelle e capelli, immaginate cosa possono fare 1.024 elettrodi distribuiti su 64 filamenti “altamente flessibili e ultrasottili” direttamente connessi alla sorgente del segnale, direttamente connessi al cervello. Inoltre, cosa mai sperimentata prima, questo chip verrebbe impiantato da un robot, chiamato R1 Robot, una macchina “progettata per inserire in modo affidabile ed efficiente i fili dell’impianto N1 nella regione cerebrale appropriata”.  

Ecco qui la ciliegina sulla torta: un’operazione di neurochirurgia eseguita da un robot, anche se non è ancora chiaro con quale effettivo coinvolgimento. Già, perché sebbene tutto ciò che si legge sul sito di Neuralink e sulla brochure utilizzata per reclutare partecipanti appaia entusiasmante, manca (ancora) la condivisione da parte della società di importanti informazioni. Infatti, quando studi come questo sono portati avanti da università o centri di ricerca, la metodologia utilizzata viene esplicitata mesi prima in dei protocolli registrati e consultabili in archivi online, il più noto dei quali è ClinicalTrial.gov, un archivio curato dal National Institute of Health, un istituto americano tra i più importanti al mondo nel campo della medicina e della salute pubblica.  

Inoltre, nonostante la notizia di questo impianto abbia avuto un’enorme risonanza, come ricorda la dottoressa Viola sulla Stampa, non è stato il primo a essere eseguito. Prima di Neuralink, infatti, un’altra azienda, la Synchron, si è occupata nel 2023 di eseguire questo tipo di impianto cerebrale su quattro pazienti con paralisi severe.   

Le tecnologie di Interfaccia cervello-computer non si occupano soltanto di studiare il modo in cui la volontà di una persona influisce sul funzionamento di un dispositivo esterno al proprio organismo, ma anche del modo in cui due cervelli possono comunicare direttamente tra loro. Come dire, il preludio della telepatia.  

In una revisione della letteratura del 2021 pubblicata su Frontiers in Neurorobotics, alcuni ricercatori americani si sono occupati di fare il punto della situazione, seppure in un campo che risulta a oggi ancora molto giovane, revisionando 15 studi che hanno come soggetti sperimentali umani, ratti e scarafaggi (che trio inaspettato, evocativo).

Tornando seri, la domanda è: ma considerando l’incredibile complessità che può emergere dall’attività mentale, come è possibile sapere quale sia il messaggio mentale inviato? E come è possibile sapere se alla fine riesca ad arrivare al cervello con cui si vuole comunicare? Com’è possibile, in sostanza, creare un reale scambio che non passi attraverso la consueta comunicazione verbale e non? 

Ciò che solitamente accade in questo tipo di esperimenti è che un’attività mentale piuttosto semplice, come pensare di muovere una parte del corpo, ad esempio una mano, viene registrata con l’elettroencefalogramma e inviata a uno strumento in grado di stimolare magneticamente o elettricamente la parte di cervello che si occupa di muovere quella specifica porzione di corpo. Chiaramente le attività di registrazione e di stimolazione avvengono su due persone distinte. Di norma i ricercatori associano due tipi di attivazione cerebrale a due risposte; come pensare di muovere la mano destra per dire sì e il piede sinistro per dire no.  Quindi, grazie a questo metodo, quando la persona “ricevente” ha la percezione di movimento di uno di questi arti, se preventivamente informata del loro significato, saprà ad esempio se rispondere positivamente o negativamente a un’affermazione. 

Proprio a causa del suo recente esordio, non è ancora possibile per le interfacce cervello-cervello inviare e ricevere messaggi con contenuti mentali complessi, a meno che gli strumenti utilizzati per registrare e stimolare non si trovino direttamente collegati al cervello, cosa che è pressoché impossibile fare a livello sperimentale sugli esseri umani se non, come Neuralink o Synchron e dopo previa autorizzazione, con il fine di tentare di emancipare le persone da condizioni di grande sofferenza. Come sottolinea uno dei ricercatori presi in considerazione dalla revisione, le potenzialità delle interfacce cervello-cervello rimangono comunque enormi; gli sviluppi futuri, infatti, potrebbero permettere a coloro che a seguito di ictus o traumi cranici hanno perso la capacità di parlare e di farsi capire, di riuscire di nuovo a comunicare. In fondo – sottolineano gli autori della revisione – “con il progredire della ricerca e della tecnologia le applicazioni futuristiche diventano meno futuristiche”. 

Negli ultimi decenni le ricerche neuroscientifiche hanno ottenuto enormi raggiungimenti, basti pensare all’invenzione di tecniche in grado di mostrarci visivamente cosa accade nel cervello – si è giunti a conoscere il funzionamento anche di piccole aree cerebrali, ad esempio ne esiste una che si attiva quando si vedono dei volti, che se danneggiata impedisce di riconoscere anche quelli di famigliari o amici – o alla creazione di metodologie di neurostimolazione, cioè di procedure in grado di influenzare l’attività cerebrale senza l’utilizzo di farmaci e in maniera non invasiva – la stimolazione magnetica transcranica, ad esempio, sta dimostrando un’elevata efficacia nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo o di depressioni che non rispondono ai farmaci. Nonostante un tale avanzamento di conoscenze, l’idea di influire sugli oggetti con la mente o di riuscire a mettere in comunicazione due cervelli si configura comunque come un traguardo stupefacente. Un punto di arrivo enorme, certo, ma che richiede di essere adeguatamente normato come tutti i recenti avanzamenti tecnologici.

Si pensi ad esempio se delle immagini di personaggi famosi create dall’intelligenza artificiale venissero diffuse come reali fotografie: quanti danni sarebbero in grado di fare se ritraessero una persona impegnata in qualcosa di illegale o di raccapricciante?  

Similmente, la possibilità di avere un chip impiantato nel cervello in grado di comunicare con un dispositivo esterno, inviando e ricevendo informazioni, è qualcosa con un’enorme portata. Qualcosa che a oggi si preannuncia come uno strumento di trasformazione positivo, probabilmente in grado di restituire parte della mobilità a chi ne è privo, ma poiché la storia ci insegna che le buone intenzioni non sono sempre sufficienti, è necessario avere politici attenti, che sappiano guardare al di là del consenso, delle visualizzazioni e dei like per gestire e indirizzare questo mondo che ci appare ogni giorno più complesso e indecifrabile. Ma forse è proprio questa la vera utopia.

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