Una partita tre contro tre della Nba 2K League a Los Angeles (Epa/Etienne Laurent) 

il foglio del weekend

Pixel e sudore. L'ascesa degli eSport

Giovanni Battistuzzi

Macché tempo sprecato: i videogiochi oggi sono un’attività agonistica con un sacco di pubblico. C’è anche chi li vuole alle Olimpiadi

Erano anni strani, a loro modo rivoluzionari e quindi particolarmente complicati, quelli nei quali noi, solo all’epoca, pionieri del joystick – non ancora joypad – ci trovavamo di fronte a qualcosa che i nostri genitori non avevano mai visto e quindi non potevano capire, nemmeno comprendere in alcuna maniera. Anni nei quali il televisore ancora era solo televisore – e qualcuno ancora resisteva ai colori – e per un Amiga o un Commodore o un Atari serviva un monitor, e ci si ritrovava in stanze solitarie, al modo dei tossici, che tutt’attorno ancora imperversavano come una sorta di piaga d’Egitto, a concederci il piacere, sempre a turno e mai condiviso davvero, di giocare ai videogiochi. Perché perdi così il tuo tempo? Non ti stufi a buttar via la tua vita davanti a uno schermo? I matusa chiedevano questo. Potevano cambiare il modo, la domanda, ma il concetto era lo stesso. E c’era sempre un corollario: ti viene la gobba, ti rovini gli occhi, diventi rachitico. E via così, fino allo sfinimento. E noi pionieri non sapevamo che rispondere, che tanto di risposte buone per i matusa non ce n’erano. A stento sapevano cosa erano i videogiochi. Senz’altro non sarebbero mai stati in grado di comprendere perché ci piaceva tanto quello schermo dove si animavano, assai male all’epoca, mondi mai visti e rigorosamente in due dimensioni, al punto da mettere in secondo piano tante altre cose.

Ed erano strani anche quelli a seguire, quando arrivò nei videogiochi la terza dimensione e tutto iniziava a sembrare più reale, e noi, che fummo pionieri, ancora ci ritrovavamo a sentire le solite domande, ma ancora più acide, e riguardanti sempre le stesse cose: la vita che se ne va, il tempo sprecato, quasi fosse diverso il giocare ai videogiochi o stare in un parco a bere birrette e fumarsi le canne, o in un bar a chiacchierare sul niente.

Chissà se i matusa di ora, coetanei dei pionieri di un tempo, fanno le stesse domande ai ragazzini? Se passare ore davanti a uno schermo, nel frattempo diventato – ormai più di due decenni fa – tivù, porta con sé le stimmate di allora? E questo nonostante ci siano fior fior di scrittori e sceneggiatori cinematografici che negli anni, e senza che glielo venisse chiesto davvero, hanno detto che i videogiochi sono stati parte della loro educazione narrativa, che hanno dato loro lo spunto per immaginare qualcosa, scene, ambientazioni, a volte universi di senso e di valore. E ci sono pure i dati, quelli che dicono che nel mondo ci sono oltre tre miliardi di persone che giocano con regolarità ai videogiochi, alcuni anche ben posizionati nella scala sociale. E ci sono aziende, molto ben posizionate e con ottimi fatturati, che sul mondo del gioco, del gaming, ci investono e credono che sia qualcosa di ormai non più minoritario, anzi. Ma anche i dati, ormai, se li filano sempre in meno.

Anche perché ora di videogiochi si può anche vivere, e pure diventare giocatori professionisti, come i calciatori o i ciclisti, ma con una tastiera e un mouse o un joypad in mano.
Strana cosa vivere di videogiochi, ci si poteva nemmeno credere anni fa, e non solo quando noi pionieri del joystick abbiamo iniziato e sentivamo i matusa dirci che stavamo perdendo il tempo e, contestualmente, la vita.

Se c’è gente che ha perso passione e voglia di seguire lo sport – i numeri globali sono da qualche anno in leggera flessione – chi segue gli eSport, ossia il comparto agonistico e professionistico dei videogiochi, è in continuo aumento, a tal punto che cresce il numero delle squadre, dei giocatori, degli eventi, soprattutto degli atleti professionisti. A tal punto ormai che non c’è nulla di diverso tra una squadra di eSport e una di uno sport tradizionale. C’è un presidente, ci sono i giocatori, c’è un direttore sportivo, degli allenatori, una struttura che accoglie e semplifica la vita agli atleti. A tal punto che è molto meno blasfemo di quello che si può pensare, aprire alla possibilità di vederli un giorno alle Olimpiadi, quelle vere, quelle estive.

Perché ci vuole tecnica e talento per fare i videogiocatori professionisti, e pure fisico e testa. D’altra parte l’immagine che gran parte della gente ha di chi gioca ai videogiochi è molto poco realistica. Non c’è nulla di più difficile da superare di un pregiudizio basato su qualche serie tv d’antan, su qualche vecchio articolo di cronaca e su un’esperienza chissà quanto antica da essere ormai andata a male. E quello dei nerd appassionati di videogiochi ormai sente il peso degli anni. Megan Fox e Henry Cavill non rispondono di certo all’immagine ciccia, brufoli e poca vita sociale che si attribuisce ai videogiocatori mentre si blatera su quanto sia stupido solo pensare di far entrare gli eSport alle Olimpiadi.
E’ diventata una cosa seria, tremendamente seria, giocare ai videogiochi in modo professionale. Perché c’è un pubblico sterminato che segue gli eSport, e sterminato per davvero: nel 2022, nel mondo, 532 milioni di persone hanno assistito regolarmente a competizioni di eSport e le previsioni dicono che entro il 2025 il pubblico “regolare” dovrebbe superare i 640 milioni. Per intenderci: l’ultima finale del SuperBowl è stata vista da 113 milioni di persone, il Mondiale di calcio in Qatar ha avuto 1,5 miliardi di telespettatori regolari, poco meno del Tour de France. Formula 1, basket e tutti gli altri sport hanno numeri di appassionati fissi decisamente inferiori a quegli degli eSport.

Perché ci sono così tante persone che guardano persone giocare ai videogiochi? Antonio Todisco, per tutti semplicemente Macko, ride e la fa facile: “Perché è appassionante, perché c’è tanta gente che gioca e prova interesse a vedere giocatori più bravi di loro giocare”. Forse è facile davvero. In fondo è la stessa spiegazione che si dà al successo del calcio. Molto spesso ciò che crediamo macchinoso e oscuro è invece più semplice di quello che si crede.

Antonio Todisco è di Monopoli, ha iniziato con i tatuaggi, gli è sempre piaciuto giocare ai videogiochi, ora ha una sua squadra, la Macko Esports. Che va alla grande: cinque volte campione italiana di “League of Legends” e una top 4 ai campionati europei, due volte vincitrice del campionato italiano di “Rainbow Six”.

 

Foto di Giovanni Battistuzzi
     

Rainbow Six” è uno sparatutto in prima persona, al mondo ci giocano circa in 70 milioni. “League of Legends” è un Multiplayer online battle arena, per brevità chiamato Moba, un videogioco strategico in tempo reale, ossia un gioco nel quale si deve distruggere il quartier generale avversario e difendere il proprio all’interno di un microuniverso chiuso. Ci giocano circa in 180 milioni ogni mese, in media circa 32 milioni di utenti al giorno. Non sono più solo i nerd a giocare ai videogiochi, soprattutto a quelli online.

E’ cambiato tutto dall’idea che i matusa di un tempo si erano fatti dei videogiochi. Non è più passatempo solitario o da fare al massimo in coppia, chi gioca non è più il ragazzo che ha problemi di socialità o che cerca un modo per evitarla. A loro modo i videogiochi sono socialità, interazione interpersonale: mentre si gioca si parla, se ci si trova bene si continua a giocare assieme, poi si approfondisce la conoscenza sui social o di persona. E’ un mondo che è cambiato radicalmente, ma che si basa sugli stessi cardini di sempre: capacità di farsi coinvolgere da una storia, capacità di risolvere problemi, velocità e riflessi. Anche molti sport sono così, prevedono le stesse caratteristiche.

Un mondo a tal punto cambiato che si ci si può ritrovare a pochi chilometri dal bianco centro di Monopoli, con il mare a pochi passi, tra l’ocra dei campi e il verde argenteo e riflessivo degli ulivi, lo scintillare dorato dei raggi del sole sull’acqua di una piscina, l’odore di salsedine che si mescola a quello di terra secca e smossa, in una casa che sembra come tante ma che in realtà è pure una gaming house, che altro non è che un luogo dove ci si allena, e molto, per giocare e vincere i campionati (per ora italiani, un giorno chissà) di “League of Legends” o “Rainbow Six”.

Vita dura, serena ma d’atleta: sveglia presto, esercizi in palestra, per chi ne ha voglia, allenamento da soli al gioco scelto, poi pranzo, allenamento di gruppo con tanto di riunioni tattiche e analisi video delle partite. Il tutto per sei mesi l’anno, con tanto di allenatori, direttore sportivo, analisti ecc. Ci sono sport nei quali tutto questo è meno scientifico e rigoroso.

E’ un mondo che è cambiato e che piano piano sta facendo cambiare i pregiudizi che si hanno a riguardo. Antonio Todisco viene dal mondo dei tatuaggi, questa metamorfosi l’ha già vissuta una volta. Un tempo i tatuaggi si nascondevano, chi ce li aveva era socialmente equivoco, “forse non era visto con sospetto, ma senz’altro incuriosiva, colpiva, non c’era l’abitudine al vedere tatuaggi e questo spiazzava. Eri la mosca bianca e chi tatuava era quello strambo. Dicevano: ‘Ma sarà mica un lavoro?!’. Lo era, lo è diventato, lo è”, dice al Foglio Macko. La società si è evoluta. “Ora è completamente diverso, ai tatuaggi ci si è fatta l’abitudine, quella del tatuatore è una professione. Qualcosa sta cambiando anche con il mondo dei videogiochi online”. Gli eSport ne sono la conferma. “Ora chi gioca ed è bravo può fare il professionista, può cioè farlo di professione. E dopo aver smesso di essere un giocatore professionista può continuare perché ci sono nuove professioni legate al gioco: l’head coach, il direttore sportivo, il commentatore, il consulente delle aziende che creano giochi nuovi e patch (aggiornamenti da installare su giochi esistenti, ndr) per quelli di maggior successo. Oppure altre aziende che hanno bisogno di una persona con elevata capacità di problem solving”, spiega.

Ci sono soprattutto settori economici e produttivi che hanno lasciato i pregiudizi negativi sul gaming e hanno iniziato a trattarlo come una realtà, non solo sportiva, ma pervasiva nella società.

Hype, la prima fintech italiana (ossia tutte quelle realtà che offrono innovazioni digitali in ambito finanziario), in partnership con Macko Esports ed everyeye.it (il primo sito italiano dedicato al gaming, alla gaming culture e alla tecnologia) lancerà nei prossimi mesi una piattaforma, la Hype Summoner Path, che permetterà di rendere più semplice e immediato sia la gestione dei progressi nei giochi, sia il processo dei pagamenti per i vari giochi. Qualcosa di nuovo, di mai visto, capace di tenere assieme sia la componente ludica, sia quella finanziaria, ma che apre anche alla possibilità agli utenti di migliorarsi nel gioco, grazie all’interazione con i migliori giocatori di eSport del team Macko e un canale Discord dedicato alla community.

Hype è nata ormai quasi una decina di anni fa (joint venture paritetica tra illimity bank e Banca Sella Holding) con l’idea di semplificare il più possibile quello che era un tempo complesso, cioè la gestione del nostro denaro. Era una start up, ora una realtà con 1,8 milioni di clienti, un punto di riferimento per il settore. E questa partnership racconta meglio di tanti altri racconti il perché parlare del gaming e degli eSport come qualcosa di trascurabile, per nerd, sia errato.

Anche perché nel frattempo, con la modifica della modalità di gioco, con la possibilità di giocare online con gente di tutto il mondo, il gaming si è evoluto a tal punto da essere ora visto, anche in diversi studi accademici, come qualcosa di utile, positivo, soprattutto migliorativo. D’altra parte si gioca in un mondo a prevalenza inglese, globale, competitivo ma non violento, che contribuisce a migliorare la capacità di risolvere problemi velocemente e la reattività nel prendere decisioni e difenderle. Una trentina di anni fa, tutto questo (meno che l’apprendimento della lingua inglese) era contenuto in un pamphlet dell’economista inglese Michael Lipton che trattava il perché la scuola inglese avrebbe dovuto incentivare gli studenti a imparare a giocare a scacchi, con corsi facoltativi od obbligatori all’interno degli istituti primari e secondari.

E’ cambiato tutto da quando noi pionieri dei joystick, dell’Atari, dell’Amiga o del Commodore ci trovavamo a giocare ai videogiochi, ad aspettare infiniti caricamenti per farlo, e ci sentivamo pure dire che perdevamo il nostro tempo. E forse è giusto così, meglio così. Ci resta la soddisfazione di aver percorso un pezzo di storia e la certezza di essere troppo vecchi sia per dire “ah, ai miei tempi”, sia per cercare di far fruttare, anche solo per qualche piccolo attimo di notorietà autocelebrativa e digitale, la pazienza che abbiamo avuto nel continuare a fare ciò che ci piaceva fare.

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