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Mollare Twitter: l'inebriante sensazione di abbandonare il vizio

Francesca d'Aloja

Prima lo spaesamento, la possibilità di un ripensamento, poi la convinzione di aver ritrovato qualcosa che sembrava perso. Un esperimento

I quit. Ho mollato. Ho smesso. Quel pronome, I, io, che la lingua italiana consente di omettere, e che l’illustre ingegner Gadda definiva “odioso”, trova il suo diritto di esistere in affermazioni categoriche come queste. Nell’I anglosassone è sottintesa una rivendicazione e dunque un manifesto orgoglio: demarca la linea di confine fra me e gli altri, e sancisce lo sconfinamento in un nuovo stato: Io sono passata di qua, Voi siete rimasti di là. 

Dire, anzi, scrivere: “Io ho mollato Twitter” mi ha provocato l’inebriante sensazione di avercela fatta, la stessa che prova una tossica che ha abbandonato il vizio di farsi, un’alcolista congedata dal gruppo di Alcolisti anonimi o un’ex tabagista. Esagerata? Forse. Eppure le analogie sono simili, naturalmente con le dovute proporzioni. Senso di smarrimento iniziale, possibilità di un ripensamento in agguato (la fase che sto attraversando, avendo sospeso e non ancora cancellato definitivamente l’account, come Ray Milland in “Giorni perduti” di Billy Wilder, che nascondeva una bottiglia di whisky in un lampadario, non si sa mai…), momenti di euforia.

E’ un esperimento interessante e in qualche misura rivelatorio. Come per tutto ciò che mi riguarda la decisione non è stata razionale e tantomeno calcolata: ho reagito impulsivamente a una sequela di insulti e offese truculente ricevute in seguito a un post riguardante il tema più divisivo e dirimente dell’ultimo anno: la guerra in Ucraina. Non esiste argomento che non aizzi fazioni, ma in questo caso il paradosso era che i commenti più virulenti fossero stati concepiti dai cosiddetti pacifisti. In nome della pace si erano fatti sotto i facinorosi. Bell’ossimoro. Il secondo elemento scatenante (e altrettanto contraddittorio) è stata la conferma di una consuetudine oramai connaturata ai social, e cioè che la maggioranza dei commenti non riguardano l’oggetto bensì il soggetto, ovvero chi ha detto e non cosa ha detto. Il post originario diventa così un pretesto per dare libero sfogo a insulti diretti alla persona, ai suoi familiari, alla professione, all’aspetto fisico, interpretando in maniera bieca e opportunistica il sacrosanto diritto alla parola. Che nulla ha a che fare con il diritto all’insulto. Se in una pubblica piazza un gruppo di persone si mettesse in testa di ingiuriarmi, il buon senso mi suggerirebbe di defilarmi e le viscere di rispondere (tentazione alla quale ho ceduto all’inizio, senza però insultare a mia volta): in entrambi i casi si giungerebbe comunque a una conclusione. Sui social avviene il contrario: al pestaggio cominciano in pochi, ma col favore del buio si aggregano rapidamente gli altri, protetti da passamontagna e occhiali scuri. E il branco cresce, si fa sempre più numeroso… Una volta al riparo, si comincia a riflettere: perché sono finita in quella piazza? E soprattutto: perché andandomene ho creduto di aver perduto qualcosa senza capire, da subito, che quel qualcosa lo stavo semmai ritrovando?

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