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contro i mulini a vento

Siamo più intelligenti dell'intelligenza artificiale. E con questo?

Arnaldo Greco

Tra qualche giorno ChatGPT ricomincerà a essere disponibile per tutti e, finalmente, ricominceremo a vedere la più affascinante delle battaglie: quella tra tecnologia ed esseri umani che vogliono far dire delle castronerie a una macchina

Quindi, tra qualche giorno, ChatGPT ricomincerà a essere disponibile per tutti e, finalmente, ricominceremo a vedere la più affascinante delle battaglie: quella tra macchine ed esseri umani che vogliono far dire delle castronerie a una macchina. In una delle scene più note di Matrix, l’agente Smith racconta con toni enfatici l’inizio della guerra decennale, e ancora in corso, tra uomini e robot, perché l’idea che un giorno sulla terra sarà combattuta una guerra distruttiva tra uomini e macchine o robot affascina gli scrittori di fantascienza da sempre.

Ma nessuno, neanche quel genio di Douglas Adams, avrebbe immaginato che la guerra tra il genere umano e le intelligenze artificiali sarebbe cominciato con gli screenshot sui social network e i commenti sarcastici affiancati: “guardate, l’intelligenza artificiale non conosce gli affluenti del Po, non possiamo fidarci”, oppure “l’intelligenza artificiale confonde Dante con Petrarca, siamo ancora meglio noi umani”. (Di solito aggiungendo anche “coi nostri difetti”, perché un po’ di realismo non guasta e attenua l’arroganza prometeica di chi vuole far sbagliare il computer). Dal momento in cui ChatGPT è stata resa disponibile si riconoscono, infatti, tre filoni principali: gli entusiasti, i terrorizzati e quelli a cui piace tantissimo indurre in errore una macchina.

 

I primi hanno inondato i social e i media di commenti, più o meno sensati, per entrambi i punti di vista. Ma solo i terzi li hanno inondati di foto di errori più o meno buffi. Errori che, a loro vedere, dovrebbero dimostrare chissà cosa e che, invece, dimostrano poco e nulla. Dunque tocca chiedersi: cosa speriamo di dimostrare con questo? Tanti anni fa, in un film di Luciano De Crescenzo, un protagonista organizzava una piccola esposizione per la vendita di rifugi antiatomici. Un visitatore tirava un pugno fortissimo a uno di questi rifugi e, quando il venditore adirato gli intimava di smettere perché avrebbe potuto romperlo, questi rispondeva: “Ma come potrei? Non sono mica più forte della bomba atomica!”. Ecco, perché c’è questa gara a dimostrarsi più intelligenti dell’intelligenza artificiale? Perché vogliamo essere più forti della bomba atomica? Non sono comunque invenzioni umane? Qual è lo scopo? Spesso, peraltro, questo sfoggio di intelligenza passa poi per il nozionismo più trito e ritrito.

Le stesse domande che abbiamo odiato a scuola per elementari, medie e superiori, le stesse informazioni fini a se stesse che abbiamo odiato imparare, sono proprio quelle che finiamo per usare nelle interrogazioni alle macchine e, di conseguenza, per sbugiardarle. Non risulta esserci stata una sfida analoga all’apparizione di Google con gare a rispondere più rapidamente del motore di ricerca, o sfide alle lavatrici impostando programmi sbagliati per far stingere gli abiti e concludere che andare al fiume era molto meglio. Sì, le persone che sfidano Google Maps o Waze pensando di arrivare prima dell’orario di arrivo stimato, purtroppo esistono e “Beat Shazam”, il format in cui persone sfidano l’app a riconoscere una canzone in minor tempo pure esiste ed è divertente nel suo attualizzare i vecchi “Sarabanda” o “Canzonissima”. Ma ChatGPT tira fuori un che di luddista anche da persone che, per ogni altro ambito, sono ottimiste rispetto a ogni nuova conquista tecnologica.

Non che l’intelligenza artificiale possa essere davvero paragonata a una lavastoviglie o a un forno, per quanto smart si dichiarino, ma l’analisi dei rischi e dei benefici non può neanche passare per una versione aggiornata di “Io speriamo che me la cavo” solo sostituendo ai bambini di Arzano gli errori della macchina nell’attribuzione di un romanzo. Anche perché dedicare del tempo alla ricerca delle contraddizioni di qualcuno – o qualcosa, a questo tempo punto ci toccherà aggiungere – è, da sempre, il modo migliore di definire una condizione di inferiorità o, quantomeno, di subalternità.