Perché i No 5G producono più antenne
La V Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera ha chiesto al governo l’adeguamento degli attuali limiti sulle emissioni elettromagnetiche a quelli europei. Il limite massimo nel nostro paese di 6 Volt per metro è la principale causa del numero elevato di ripetitori in Italia
Nei giorni scorsi è rimbalzata, tra mille ironie, la scelta del consigliere regionale del Lazio, Davide Barillari, di fare uno sciopero della fame di “ben” 24 ore contro l’aumento dei limiti italiani sulle emissioni elettromagnetiche. Al di là della modesta fatica fatta dal politico in termini di impegno civile, il tema è ben più serio di quanto emerga dai personaggi più pittoreschi a sostegno del “totem no5G”.
Per una particolare eterogenesi dei fini, infatti, coloro che osteggiano il proliferare di antenne, ne sono fondamentalmente i principali protagonisti.
Facciamo un passo indietro. Lo scorso 15 gennaio, la V Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera dei Deputati ha proposto al governo italiano di valutare l’adeguamento degli attuali limiti sulle emissioni elettromagnetiche a quelli europei. Si tratta di una svolta per la telefonia mobile nazionale. In materia di radioprotezione, infatti, l’Italia ha da sempre privilegiato politiche estremamente cautelative, collocandosi nei primi posti in Europa per la severità della normativa con pesanti ripercussioni sulla qualità e rapidità nella realizzazione delle reti. Per il semplice consumatore ,basta guardare la qualità del servizio nelle aree meno abitate di Appennino e Alpi per capire cosa significhi, in termini reale, una minore emissione da parte dei ripetitori telefonici.
Il limite massimo nel nostro paese è di 6 Volt per metro, a fronte di una media europea fra i 41 e i 58 V/m, molto al di sotto di realtà come gli Stati Uniti, dove è fissato a 61 V/m, e ancor più restrittivo rispetto alle linee guida internazionali recepite dall’Unione europea. I nostri limiti cosi rigorosi costringono gli operatori a installare molte più antenne rispetto alle altre nazioni (oltre un terzo) con notevoli impatti ambientali e paesaggistici. Insomma, abbiamo un sacco di ripetitori per garantire coperture adeguate a territori che, con limiti più alti, ne necessiterebbero assai meno come nei paesi europei a noi confinanti. Le vicine Svizzera e Austria, per utilizzare esempi orografici assai efficaci, riescono ad avere un’ottima copertura su tutto il territorio – ovvero anche quello montano, come da anni richiedono a gran voce i Comuni italiani tramite UNCEM – nonostante una densità di antenne minore della nostra. Paradossale, ma efficace.
Le attuali norme in vigore sono un fattore che, in Italia, riesce ad essere sia inefficiente quanto costoso. Insomma, per difendere il territorio dalle emissioni, lo si riempe di installazioni. Come evidenziato da AssTel – ovvero Assotelecomunicazioni, l’associazione di categoria che, nel sistema di Confindustria, rappresenta la filiera delle Tlc italiane - nell’audizione svolta alla Camera dei deputati il 9 aprile 2019, "il mancato allineamento della disciplina italiana a quella europea sui limiti di esposizione all’emissione elettromagnetica ha storicamente fatto sì che gli Operatori nazionali siano stati fortemente penalizzati rispetto ai competitor degli altri Paesi UE. Infatti, limiti più bassi richiedono l’installazione di più impianti e impediscono di utilizzare tutti i siti di cui gli Operatori dispongono per posizionare le antenne e gli impianti della nuova tecnologia, e per tale via condizionano fortemente lo sviluppo della rete radiomobile".
La normativa italiana ha introdotto - senza particolari giustificazioni di carattere scientifico – l’assunto che esista per la popolazione il rischio di malattie connesse all’esposizione prolungata ai campi elettromagnetici anche a bassi livelli. Sulla base di tale assunto, accanto ai valori limite, vengono fissati "livelli di attenzione" e "obiettivi di qualità" che non trovano riscontro in ambito internazionale (né a livello scientifico, né normativo) e inducono la popolazione a ritenere che tali effetti esistano, costringono le Agenzie regionali a mobilitare i propri tecnici per ripetuti e costosi controlli, obbligano gli operatori nazionali a onerosi interventi sugli impianti, penalizzando la qualità assicurata dalla nuova tecnologia. Su queste basi, lo scorso 24 marzo, la IX Commissione Permanente della Camera dei deputati ha quindi espresso parere favorevole sulla proposta di adeguamento dei limiti di immissione elettromagnetica a quelli proposti a livello europeo di 61 Volt/metro, che assumono come effetti avversi i soli effetti termici, cioè il riscaldamento dei tessuti. Legambiente si è espressa in maniera contraria, asserendo che “il limite proposto (di 61 Volt/metro, ndr) non tiene conto delle numerose evidenze scientifiche in laboratorio che hanno ormai dimostrato la presenza di effetti biologici non termici anche molto gravi, fino a forme tumorali, anche in presenza di livelli di esposizione inferiori”.
In realtà, al momento, la normativa internazionale sull’esposizione ai campi elettromagnetici si fonda, invece, sul quadro tecnico-scientifico approfondito dall'ICNIRP (International Commission On Non-Ionizing Radiation Protection) e validato dall'OMS. Gli studi condotti in questo filone dimostrano solo l'esistenza di effetti biologici diretti di tipo acuto, per evitare i quali il livello di esposizione dove si potrebbe verificare un potenziale effetto critico è ridotto di 50 volte. Ai livelli inferiori a quelli raccomandati dall'ICNIRP non è stata confermata e tende anzi ad essere esclusa l'esistenza di un rischio legato ad esposizioni prolungate ai campi elettromagnetici. Un report dell’ITU (International Telecommunication Union), l’organizzazione internazionale che si occupa di definire gli standard nelle telecomunicazioni e nell’uso delle onde radio, realizzato nel 2018, sostiene che regole troppo severe ostacoleranno il lancio delle reti di nuova generazione in quei paesi che adottano regolamenti più cautelativi. Un treno, quelle delle nuove reti mobili veloci, che l’Italia non può permettersi di perdere in un mercato globale sempre più competitivo.
Alla fine ci sono interessi legittimi contrapposti, ma che scontentano entrambe le posizioni. Abbiamo visto come la copertura della (non più) futura rete 5G, se restassero i limiti attuali, farebbe letteralmente proliferare il nostro territorio di antenne, nonostante gli operatori si siano mossi con società per la condivisione dei siti. Chi vede nella presenza dei ripetitori una specie di inquinamento a prescindere, a sua volta, non sarebbe soddisfatto. La soluzione che viene osteggiata potrebbe essere davvero la migliore, almeno per ovviare all’onerosità dei costi sia per la collettività che per gli operatori. L’adeguamento della normativa nazionale a quella internazionale, infatti, consentirebbe di garantire un livello adeguato di radioprotezione per la popolazione allo stato delle evidenze scientifiche, che nelle proprie conclusioni già incorporano il rispetto del principio di prudenza. Una cosa che diamo per scontata, il segnale telefonico, non lo è. Quando manca a pagarne l’assenza, sempre per l’eterogenesi dei fini da cui siamo partiti, sarebbero ancora una volta quei territori che già più di tutti soffrono il cosiddetto “digital divide”.
Cose dai nostri schermi