(Ansa)

Internet rischia di diventare una (enorme) casa editrice

Cecilia Sala

Il web è libero e decentralizzato da sempre grazie a una legge federale americana che ora tutti, da destra e da sinistra (e persino Zuckerberg), vogliono stravolgere senza sapere bene cosa succederà  
 

Il modo in cui gli Stati Uniti regolamentano Big Tech non va (più) bene. Su questo repubblicani e democratici sono d’accordo. Da Joe Biden a Donald Trump, passando per gli esponenti del Gop più moderati di Trump e per i dem più radicali di Biden, tutti vogliono vedere abrogata, o almeno riformata, la sezione di una legge federale chiamata Section 230. Quelle incriminate sono poche righe del “Communications Decency Act” del 1996, ma si tratta di quelle poche righe che hanno consentito la libertà di parola su internet e la possibilità per Facebook, Google, Twitter, Wikipedia, Tripadvisor, Airbnb di esistere.

 

Il concetto espresso nella 230 è semplice: un “servizio informatico interattivo” non può essere considerato l’editore di contenuti di terzi. La piattaforma non è responsabile per ciò che pubblicano gli utenti e nel caso un utente pubblichi un contenuto illegale, con alcune importanti eccezioni e non se, ad esempio, si rifiuta di rimuovere un contenuto illecito dopo che un tribunale federale ha ordinato di farlo.

 

Non si tratta soltanto dell’articolo di una legge, i padri fondatori del web, da Vint Cerf a Tim Berners Lee fino ad Aaron Swartz, ci direbbero che quel concetto è l’essenza stessa di internet. Ciò che lo rende accessibile, libero, partecipato: diverso. Che distingue il “nuovo regno” da una casa editrice di Salerno, un canale tv di Cologno Monzese, una qualsiasi testata giornalistica registrata con un direttore responsabile che seleziona e filtra i contenuti. 

 

Altrimenti – pensavano i padri fondatori tanto quanto Ron Wyden e Chris Cox che negli anni Novanta hanno portato la 230 in Parlamento – sarebbero stati necessari dei megadirettori-vigilantes spaventosamente multitasking e, soprattutto, non sarebbe stata granché geniale la loro invenzione. Il World Wide Web sarebbe stato nient’altro che un editore, semplicemente uno molto molto grande. 

 

Non poteva andare così, infatti internet è nato libertario e la sua principale innovazione è stata proprio la decentralizzazione. 
Se per raccontare la Section 230 e i progetti di riforma che la riguardano siamo partiti da lontano è perché, prima che la politica e l’opinione pubblica in Occidente iniziassero a mettere in discussione questo principio di irresponsabilità della piattaforme, una discussione informata era già avvenuta al livello dei fondatori di  Big Tech.

 

Alcuni esempi. Negli anni Novanta Prodigy era uno dei più grandi fornitori di servizi online. C’era un po’ di tutto, dalle previsioni del tempo ai servizi bancari, le recensioni degli utenti e delle formule per le interazioni digitali che oggi ci sembrerebbero primitive. Un utente scrisse un commento che chiamava in causa una compagnia, questa compagnia si sentì offesa e portò in tribunale non solo l’utente ma la stessa Prodigy. Internet stava muovendo i primi passi nel mondo, un precedente come questo rischiava di bloccare tutto. I provider di servizi non erano in grado di controllare la grande mole di contenuti “dal basso”, e per paura di venire sommersi dalle cause giudiziarie stavano prendendo in seria considerazione l’ipotesi di chiudere per tornare a investire in business più tradizionali. Un senatore dell’Oregon, il democratico Ron Wyden, preoccupato, si mise a cercare una soluzione e la trovò: la Section 230. 

 

C’è un altro esempio che può sembrarci molto lontano, ma aiuta a capire quale fosse la filosofia degli inizi e come percepissero il proprio ruolo, almeno fino ad un certo punto di questa storia, i fondatori delle piattaforme poi diventate Over The Top.
L’ex Ceo di Google Eric Schmidt - che ha ricoperto cariche di primo piano al dipartimento della Difesa con Obama e Trump e ha presieduto il National Security Commission on Artificial Intelligence - aveva profetizzato una biforcazione di Internet, una separazione in due metà, una a guida statunitense e un’altra a guida cinese. Dentro Google Schmidt aveva difeso il programma Dragonfly, per creare un motore di ricerca diverso e costruito su misura per la Repubblica popolare cinese.

 

I fondatori Larry Page e Sergey Brin impallidirono. L’irresponsabilità delle piattaforme, la decentralizzazione, veniva intesa come una legge fondamentale della rete secondo cui nessuno ha il diritto di dirigere lo spazio del web o di censurarlo, né la piattaforma né tantomeno la piattaforma per conto di un governo. Schmidt la vedeva diversamente, guardando alla Cina soprattutto come a un mercato irrinunciabile, diede le dimissioni. Pochi anni dopo si recò anche in Corea del Nord per incontrare Kim Jong Un, lo stupore generale accolse la notizia che ad accompagnarlo era stato Jared Cohen, ceo di Google Ideas, il think thank di Mountain View che ha tra le principali missioni proprio quella di combattere la censura online. Quell’incontro fu giudicato controverso, oltre a sembrare - almeno per quando riguarda la presenza di Cohen - un po’ paradossale. Passarono pochi mesi e Kim annunciò “la Corea del Nord è finalmente in grado di produrre il suo primo smartphone autoctono”.

 

L’esempio di Prodigy, la postura di Schmidt e la reazione dei fondatori di Google ci servono a prendere le misure di quanto il discorso sulla neutralità della rete (“Net neutrality”) e quello sulla sua “responsabilizzazione” sia complesso. “Responsabilizzare le piattaforme”, con queste parole, suona educato e ragionevole alle orecchie di chiunque, invece può comportare reazioni avverse e un certo numero di implicazioni indesiderate. 

 

Chiariamo, la Section 230 non impone la neutralità, si limita a renderla possibile dicendo due cose:
1. La piattaforma non è responsabile per il contenuto pubblicato da un utente. Solo l’utente lo è. Questo a differenza di quanto avviene per una radio, un programma televisivo o un giornale. 
2. La piattaforma può decidere liberamente come, quanto e se moderare i contenuti che su di essa compaiono, restando fermo il fatto che per quei contenuti non è responsabile. 

 

Ogni piattaforma privata può avere una propria policy sui comportamenti degli iscritti, ma se la piattaforma non vuole interferire, non può essere perseguita per ciò che gli utenti dicono all’interno del suo spazio. Anche se la possibilità di moderare i contenuti è sempre esistita, in una prima lunga fase della vita dei social network l’interpretazione più in voga era che fosse meglio non farne uso, nella convinzione che scegliere cosa tenere e cosa rimuovere fosse una pratica controversa, inopportuna e contraria allo spirito delle origini. Tutto è cambiato con le elezioni del 2016, con la vittoria di Donald Trump e con lo scandalo Cambridge Analytica. Quando abbiamo scoperto che i giganti della rete vendevano i nostri dati perché qualcuno potesse “targhettizzarci” e propinarci informazioni polarizzanti conoscendo le nostre debolezze e i temi su cui siamo più esposti. Le piattaforme, per non perdere la faccia, iniziarono a moderare i contenuti come non avevano mai fatto prima.

 

Oggi, secondo i repubblicani, questa moderazione avviene sistematicamente a svantaggio dei conservatori. Secondo i democratici, questa moderazione non avviene abbastanza. 

 

Nel frattempo, la filosofia delle origini – l’ambizione un po’ utopica della decentralizzazione e della creazione di uno spazio di discussione senza censura – è stato abbandonata dai più. I fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin, che in una prima fase avevano avversato il progetto di un motore di ricerca su misura per la Cina, oggi hanno scelto la vita da ricchissimi nullafacenti e si sono progressivamente disinteressati ai comportamenti della loro creatura, lasciando che l’amministratore delegato Sundar Pichai portasse avanti proprio quel Dragonfly che un tempo li aveva fatti inorridire.

 

Il mito della costruzione di uno spazio neutrale sembra essersi perso nei tornanti dell’evoluzione del business e sappiamo che, al contrario, le piattaforme hanno algoritmi che premiano un certo tipo di contenuti e ne penalizzano altri, e che nel recente passato hanno premiato proprio quelli più polarizzati e distorti, per il semplice fatto che i contenuti “estremi” fruttano di più essendo in grado di tenere più a lungo gli utenti connessi. Non si tratta di logiche astratte, la circolazione di informazioni diffamatorie e complotti continua ad avere conseguenze molto concrete. La trasmissione americana 60 Minutes a gennaio ha intervistato Maatje Benassi, riservista dell’esercito americano e madre di due figli. Benassi negli ultimi mesi è diventata l'obiettivo di un gruppo di complottisti che la accusano nientemeno che di aver portato il Covid sul pianeta terra. I dettagli di questa teoria sono troppo idioti per soffermarcisi, ci basti sapere che un ampio numero di video che sostengono questa tesi ha raggiunto in poco tempo centinaia di migliaia di visualizzazioni ciascuno, che la signora Benassi ha perso il conto delle minacce di morte ricevute e che i suoi odiatori sono riusciti a scovare il suo indirizzo di casa e lo hanno pubblicato in rete. Lei, da quel momento, vive nel terrore.

 

Sappiamo che il traffico e i dati accumulati anche in occasioni come queste si trasformano in un vantaggio economico per le piattaforme, e che la politica americana fa sempre più fatica a non considerare anch’esse responsabili quando non fermano per tempo simili disastri. Sappiamo che la principale ragione per cui  Big Tech non vogliono che la 230 sia sottoposta a modifiche è che fare l’editore o il direttore responsabile è più scomodo e decisamente meno redditizio che fare il capo di Facebook. Consapevoli di tutto questo, non possiamo però scordare il caso Prodigy. Non possiamo approcciare la Section 230 senza considerare che – per fare soltanto un esempio – se fosse abolita tutti i ristoranti del mondo potrebbero all’improvviso portare in tribunale Tripadvisor (spesso le recensioni che lì compaiono non vanno per il sottile) chiedendo alla piattaforma di dimostrare quelle affermazioni che i ristoratori considerano diffamatorie e che qualche utente di una provincia dell’Arkansas, del Kyushu o della Calabria ha digitato nel corso degli anni. Teniamolo a mente almeno se non vogliamo fare la figura che fece il Congresso americano la prima volta che portò in audizione Mark Zuckerberg proprio sul caso Cambridge Analytica: la figura di quelli che non sapevano di cosa stessero parlando.

 

La completa abolizione della 230 è stata una bandiera della campagna elettorale per le primarie democratiche di Elizabeth Warren, l’amministrazione Trump ha detto di volerla riformare e lo stesso ha promesso Joe Biden e il Congresso in cui i democratici hanno la maggioranza. In una audizione al Senato del 28 ottobre 2020, rivolgendosi direttamente al ceo di Google, il repubblicano Roger Wicker ha rimproverato le piattaforme di sopprimere principalmente se non esclusivamente le voci di destra e di spacciare uno spazio “libdem” per uno spazio super partes. I repubblicani non riescono a capacitarsi del fatto che un social network possa bannare definitivamente un presidente in carica, persino un presidente che inventa brogli elettorali e incita alla violenza, mentre ad altre latitudini scende a compromessi con governi non democratici o si rifiuta di censurare affermazioni altrettanto controverse di altri capi di Stato.

 

Per ragioni diverse, sia i repubblicani che i democratici ritengono di aver subito torti e abusi dalle piattaforme, chi nel 2016 e chi nel 2020. Entrambi potrebbero covare un po’ di malcelato rancore e forse addirittura un qualche desiderio di vendetta. In Parlamento sarà lo scontro tra chi lamenta che i social network censurino troppi account e chi pretendono più account bloccati. In questo contesto, se sono facilmente identificabili le mancanze e le incoerenze delle piattaforme, decidere come moderare un dibattito globale, imporre per legge le regole deputate a farlo, lo è assai meno. Soprattutto in un paese dove il Primo Emendamento proibisce al governo di limitare la stragrande maggioranza delle forme con cui si manifesta la libertà d’espressione. Se i social network sono nati proprio in quel paese, non è un caso.