Ecologia di mercato 2.0

Massimiliano Trovato

Carne, pellame e corni sintetici: così startup e innovazione salvano gli animali

Se pensate che le vostre incombenze lavorative o familiari siano responsabilità logoranti, probabilmente ignorate la storia di Sudan, il quarantatreenne keniota che, costantemente affiancato da agenti armati e cani da guardia, da anni tenta invano d’ingravidare la figlia e la nipote – sue uniche compagne di vita – per scongiurare l’estinzione della sottospecie. Sudan è un rinoceronte bianco settentrionale: l’ultimo esemplare maschio rimasto sulla faccia della terra. La sua vicenda, naturalmente, non è che la manifestazione più clamorosa di un’assai più ampia tendenza: la popolazione mondiale dei rinoceronti – tenendo conto di tutte e cinque le famiglie in cui gli studiosi li classificano – non raggiunge oggi le trenta mila unità, in drammatico calo rispetto ai circa cinquecento mila capi che zoccolavano per i continenti all’inizio del ventesimo secolo. Alla radice di questa morìa c’è la caccia al corno, la cui quotazione supera i cento mila dollari al chilo in mercati come la Cina e, soprattutto, il Vietnam, in virtù delle credenze tralatizie che – pur senza il minimo riscontro scientifico – gli riconnettono la cura dei più disparati malanni, dal cancro all’impotenza. Sicché, seguendo una prassi ormai diffusa e tesa a scoraggiare l’attività dei bracconieri, i veterinarî della riserva che lo ospita hanno preferito recidere l’appendice di Sudan – il che potrebbe forse giustificare le défaillance a cui l’animale è andato incontro negli approcci carnali (per non lasciare nulla d’intentato, tuttavia, il nostro scapolone si è rivolto persino a Tinder).

 

Pembient produce corno di rinoceronte; Modern Meadow pellame in laboratorio; Memphis Meats hamburger cruelty free

Ogni anno, circa mille rinoceronti vengono uccisi: testimonianza del fallimento delle strategie abituali, basate su divieti draconiani e su una vigilanza impraticabile. Allo stesso tempo, le idee innovative scarseggiano: il Sudafrica ha tentato di creare un mercato legale, con esiti ambigui; e l’utilizzo di strumenti tecnologici come moduli gps e microcamere ha appena scalfito la portata del fenomeno. Una soluzione potrebbe giungere dalla Silicon Valley e da Pembient, una startup che mira a commercializzare corno di rinoceronte sintetico, prodotto a partire dalla cheratina e dal dna dell’animale – le ricerche stimano nel 45 per cento dei consumatori il mercato potenziale del prodotto e la pressione deflattiva potrebbe ulteriormente restringere l’offerta clandestina.

 

Modern Meadow, azienda con sede nel New Jersey, ha in mente una ricetta simile per rivoluzionare il settore dei pellami – una torta da cento miliardi di dollari l’anno. I ricercatori della società sono riusciti a sintetizzare il collagene bovino e a produrre, a partire da quello, fogli di pelle che non eguagliano la qualità della materia prima naturale, ma sono immuni da imperfezioni e vincoli di formato.

 

Ma è nel comparto alimentare che la tensione tra esigenze dei consumatori e premure animaliste raggiunge l’apice. Per questo, la californiana Impossible Foods si è data una missione curiosa: produrre carne che abbia il sapore, l’odore e la consistenza della carne, ma a partire da sostanze vegetali. I loro hamburger di mais, patate e latte di cocco sono già in commercio presso alcune catene di ristoranti e il Foglio ha potuto raccogliere l’opinione di uno dei primi fortunati assaggiatori; il suo responso: “Il sapore è gradevole, ma ancora lontano dall’originale”.

 

 Se il vecchio ambientalismo agiva sulla conservazione, la sua versione aggiornata tenta di mettere a punto soluzioni innovative

Ma che la direzione sia promettente è testimoniato dall’attività di un’altra azienda che persegue uno scopo analogo, pur seguendo una strada parallela. Si tratta di Memphis Meats, una startup che può contare sul sostegno di pezzi da novanta come Bill Gates e Richard Branson. Se Impossible Foods aspira a eliminare la carne dalle nostre tavole, Memphis Meats adotta una filosofia relativamente modesta, limitandosi a “ripulirla” dai connotati più cruenti (e inefficienti) che caratterizzano l’allevamento intensivo. La materia prima, in questo caso, è di origine animale, ma viene coltivata e riprodotta in laboratorio. Forzando un po’ il paragone, potremmo dire che Impossible Foods dipinge hamburger, Memphis Meats li fotocopia. E che dire di Ripple e Perfect Day (che producono latte a partire da piselli e mandorle) o di Hampton Creek (maionese senza uova)?

 

Queste iniziative sembrano riportare in auge una linea di pensiero, quella dell’ambientalismo di mercato, che – a partire dalle riflessioni di Hardin e Coase, ma a ben vedere anche di spunti già presenti in Aristotele – ha messo in luce come diritti di proprietà ben definiti e il coordinamento del sistema dei prezzi possano assicurare un utilizzo ottimale delle risorse naturali. A quest’orientamento si rifanno numerosi accademici, centri di ricerca (uno per tutti: il Property and Environment Research Center di Bozeman, nel Montana) e studî che, oltre all’impianto dottrinario, condividono la suggestiva ricercatezza di titoli come “Privatizziamo il chiaro di luna!”, “La fattoria dei capitali” (pubblicati da Leonardo Facco Editore) e “Proprietari di sé e della natura” (Liberilibri).

 

C’è, però, una differenza significativa: se il vecchio ambientalismo di mercato agiva sul versante della conservazione, la sua versione aggiornata tenta di mettere a punto soluzioni innovative per rispondere ai bisogni sinora affidati a madre natura. Delegare a speculatori (il mercato) e prestigiatori (le biotecnologie) l’effettiva tutela del benessere degli animali costituirebbe un testacoda ideologico piuttosto marcato per un movimento che, pur nella difformità delle sue varie anime, ha sempre guardato a un modello di tutela ostinatamente proibizionista e fondato sul piagnisteo. E non è un caso che i cultori tradizionali delle istanze animaliste accolgano tali innovazioni con sospetto, vedendole come un’inopportuna distrazione dall’obiettivo finale: che non è tanto quello di preservare alcuni esseri viventi da sofferenze evitabili, quanto piuttosto quello di limitare la libertà di scelta di altri esseri umani. Vale ancora la vecchia battuta: gli ambientalisti sono come le angurie, verdi fuori e rossi dentro. e per loro non c’è ancora una startup.

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