C'è qualcosa di antimoderno in questa smania dei prodotti tipici italiani

Antonio Pascale
Dalla pizza napoletana al Parmigiano reggiano con “batteri autoctoni”. Ma il dogmatismo rovina il mercato. Anche l’Economist se n’è accorto: “Le denominazioni limitano le economie di scala, produttività e le innovazioni”. Se restringiamo troppo il territorio d’origine e mettiamo dei paletti alle modalità di produzione, poi come facciamo se abbiamo l’esigenza di essere flessibili?

Come mai più di due mesi fa, mercoledì 18 maggio, un centinaio di pizzaioli hanno preparato 1,853.88 metri di pizza? Una manifestazione promozionale. Da un lato si voleva raggiungere un primato da Guinness, dall’altro si cercava di raccogliere le firme per l’Unesco: la pizza napoletana deve essere considerata come patrimonio culturale immateriale dell’umanità, insieme al tiro con l’osso mongolo e la danza capoeira brasiliana. Sono nato a Napoli – poi vissuto a Caserta e infine a Roma- e quando assisto a manifestazioni del genere, vi confesso, sono vittima di sentimenti ambivalenti. Sì, da una parte, a caldo, ho i miei gusti in fatto di pizza, di mozzarella (soprattutto) e me ne vanto e discuto e li difendo. Dall’altro, a freddo, sono stanco di questa visione della tradizione tutta italiana. La frase “come una volta”. Fate caso anche voi alla sua proliferazione? Sono dei memi italiani, e si moltiplicano come le trattorie della nonna. Queste nonne italiane, insomma, che ancora preparano ricette come ai bei tempi.

 

Nei miei incubi vedo lo stato italiano come un’enorme nonna che veglia, protegge e rimprovera i suoi nipoti/sudditi. Ecco, questi sono i miei sentimenti quando si parla di tradizioni alimentari, prodotti tipici e altro, e non so come uscire da questa contraddizione. Cioè, prendiamo la pizza, quando comincia la tradizione? A partire da quale data la pizza diventa vera pizza tradizionale? Ci sono innumerevoli racconti di viaggio: all’inizio la pizza era “un pezzo di pane che era stato tirato fuori dalla fogna”, diceva Samuel Morse. Sono stati i primi italiani immigrati in America a valorizzarla e innovarla, e gli stessi, una volta tornati, l’hanno ancora rimaneggiata. E’ chiaro, poi parliamo di tradizione e io difendo, a caldo, alcuni tipe di pizze. Però se poi a freddo smonto il prodotto che trovo? Il pomodoro non è italiano, le bufale (con cui si fa la mozzarelle) nemmeno: sono animali arrivati a seguito delle truppe barbare che presero Roma. Pure il basilico non è tradizionale, viene dall’India. Va bene, capisco, voi dite e giustamente, però esistono vocazioni territoriali (nel nostro variegato paese soprattutto) e infatti siamo vocati per la pizza, ed è doveroso difendere il prodotto, mica solo la pizza. Quanti altri prodotti tipici abbiamo? Tantissimi, 924 tra quelli alimentari, vini e altre bevande. Più di Francia (754) o Spagna (361). Forse sono troppi? Forse sì, insomma, se da un lato, a caldo, difendiamo la vocazione territoriale dunque creiamo dei protocolli di difesa del prodotto, a freddo, se ci ragioniamo, il suddetto protocollo crea limiti all’innovazione.

 

Anche l’Economist se n’è accorto: “Le denominazioni limitano le economie di scala, produttività e le innovazioni”. D’altra parte è chiaro, esasperando il concetto di tipicità e di territorio si diventa il gestore dei confini e il garante della sacralizzazione alimentare. Questo è un problema, soprattutto in natura. Un prodotto è soggetto a innumerevoli influenze ambientali e si modifica o necessità di modifiche, altrimenti invecchia. Il dogmatismo in natura (specialmente) non funziona. Se restringiamo troppo il territorio d’origine e mettiamo dei paletti alle modalità di produzione, poi come facciamo se abbiamo l’esigenza di essere flessibili? Una volta ho letto nella relazione introduttiva del Cheese di Bra che il Parmigiano-Reggiano è “autoctono. Infatti la tecnologia di trasformazione del latte in formaggio, realizzata in caseificio, vuole esaltare l’attività e la fermentazione dei batteri ‘autoctoni’, cioè quelli nati nel territorio”. Non vogliamo batteri di importazione. Cioè? I microrganismi conoscono la geografia? Quindi, sanno tra Mantova destra Po e Bologna sinistra Reno o viceversa? Insomma, che roba è? L’universo dei batteri è di pochi millimetri, non certo grande come il comprensorio Parmigiano/Reggiano. Il comprensorio nemmeno è omogeneo per temperature, piovosità, suolo e altro. Sì, dai, c’è qualcosa di antimoderno in questa smania dei prodotti tipici.

 

Poi è chiaro che per un turista è bello e piacevole pensare che l’Italia sia un’oasi di buon cibo tradizionale e convivialità, infatti è tutto slow da noi: food ed economy. Però, sempre a freddo è interessante anche considerare il punto di vista dell’Economist: “Agli Italiani piace pensare che la loro arte, la cultura e lo stile di vita li solleverà dal torpore economico. Ma l’Italia non ha visto quasi nessuna crescita della produttività nel decennio, in parte perché le sue aziende restano piccole: in media si contano sette dipendenti, circa le dimensioni di una pizzeria a conduzione familiare. L’Italia non ha catene alimentari globali di cui parlare (o anche grande distribuzione, come Carrefour di Francia). Può farsi a casa un espresso, ma il vicino svizzero ha inventato Nespresso”.  Perché c’è questo pregiudizio culturale, sostenuto da una gran parte di noi? In ragione del quale se ti dico ho una piccola fattoria vedo il sorriso spuntare sul volto del mio interlocutore e viceversa quello mette su un ghigno sospettoso. Non capisco, è una specie di protezionismo quello che rivendichiamo quando parliamo dei prodotti tipici e delle vocazioni territoriali?

 

Cioè invece di competere sui mercati globali – dunque investire e innovare- i produttori vogliono tutelare il sacro patrimonio? Ma poi negli accordi commerciali il valore delle indicazioni geografiche è provato? Cioè, i prodotti tipici sono unici e qualitativamente superiori? Quindi danno un maggiore reddito ai produttori? O vogliamo dare solo un contentino per le lobby agricole? Non lo so, sicuro che questi discorsi sono ormai memi di sinistra e si diffondono, senza alcuna analisi seria. Anche perché amplificati da certi opinion leader, comici, retori, intellettuali. Ci sarà mai qualcuno di noi tanto coraggioso da dire che la mela che ha comprato al supermercato è più buona di quella presa al mercatino rionale o campagna amica Coldiretti? Certo sarebbe un bel cambio culturale. Vabbè, nell’attesa mi è venuta fame, vado a mangiare sushi, che poi quello che gestisce il ristorante è cinese, ma il cuoco rumeno, ma tifoso della Roma mentre io sono del Napoli e questo mi crea qualche problema, ma vabbè per amore del cosmopolitismo alimentare, per stavolta, a freddo, ci passo sopra.

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