Foto LaPresse

Perché la sentenza della Corte europea contro Facebook è una cattiva notizia

Eugenio Cau
Il massimo tribunale europeo dichiara invalida la libera circolazione dei dati tra Europa e America: è un'altra vittoria del clima di sfiducia inaugurato dalle rivelazioni di Snowden

L’accordo transatlantico “Safe Harbor”, che unificava gli standard americano ed europeo per la trasmissione e la conservazione dei dati dei cittadini, è stato dichiarato invalido martedì mattina da una sentenza della Corte di giustizia europea. Il caso nasce da una causa intentata contro Facebook presso l’authority antitrust irlandese dall’attivista austriaco Max Schrems, e la sentenza del massimo tribunale europeo rischia di avere enormi ripercussioni sul modo in cui le società della Silicon Valley e altre grandi compagnie operano in Europa.

 

La sentenza della Corte invalida il Safe Harbor, creato nel 2000 per facilitare il passaggio di dati tra le due sponde dell’Atlantico, e da oggi consente ai paesi europei di decidere autonomamente il modo in cui le compagnie usano i dati digitali dei loro cittadini. Le autorità antitrust dei paesi dell’Ue potranno decidere di mantenere il libero passaggio delle informazioni attualmente in vigore, che consente a società come Facebook e Google di immagazzinare i dati degli utenti europei in territorio americano, oppure costringere queste stesse società a tenere in Europa i dati degli europei o, più nello specifico, in Italia i dati degli italiani. Misure simili sono già state adottate in alcuni paesi di tendenza autoritaria, come per esempio la Russia, che quest’anno ha costretto le compagnie di internet americane a immagazzinare i loro dati su suolo russo con l’intento, dicono i critici, di esercitare maggior controllo sul web e di reprimere la dissidenza online.

 

La Russia ha sfruttato come giustificazione della decisione sui dati lo scandalo della Nsa, l’Agenzia per la sicurezza nazionale americana, svelato da Edward Snowden nell’estate del 2013, e ha usato le informazioni giornalistiche secondo cui l’America gestisce un’ampia rete di spionaggio e intercettazioni online per accusare gli Stati Uniti di non proteggere a sufficienza la privacy. Comprensibile se l’accusa viene da Mosca. Peccato che queste siano le stesse argomentazioni usate dal massimo tribunale europeo per invalidare il Safe Harbor.

 

La causa di Max Schrems contro Facebook inizia proprio dallo scandalo Nsa: secondo l’austriaco, alla luce delle rivelazioni di Snowden non si può più considerare l’America un paese sicuro per la privacy dei cittadini europei, e la Corte europea gli ha dato ragione. E’ una tesi difficile da sostenere, specie dopo che, negli anni, la portata dello scandalo Nsa è andata attenuandosi, mostrando come alcuni dei particolari più sapidi diffusi ai giornalisti fossero non verificabili (ricordate il cellulare della cancelliera tedesca Merkel intercettato dagli americani? un giudice di Berlino ha detto che non ci sono prove che sia mai successo) e mostrando inoltre l’ampio grado di collaborazione tra le intelligence europee e quella americana, che difficilmente fa immaginare il Vecchio continente come una vittima inerme.

 

Robert Litt, consigliere generale dell’ufficio del direttore dell’Intelligence nazionale americana, sul Financial Times di oggi critica con buoni argomenti l’opinione contro il Safe Harbor emessa dall’avvocato generale a settembre e poi fatta propria dalla Corte. Parlare, come fa l’avvocatura generale, di “accesso di massa e senza restrizioni ai dati conservati nei server americani” da parte della Nsa era scorretto già all’inizio dello scandalo, ma lo è diventato ancora di più dopo che l’anno scorso il presidente americano Barack Obama ha ridotto di molto i poteri di accesso ai dati dell’Agenzia, e iniziato un programma di trasparenza. La Corte però ha dato ugualmente ragione a Schrems, e ha decretato che, almeno per quanto riguarda la privacy, degli americani non c’è da fidarsi.

 

[**Video_box_2**]Al netto della portata simbolica della sentenza, dichiarare invalido il Safe Harbor significa eliminare per i dati digitali ciò che Shengen è per il movimento delle persone dentro l’Europa e significa fare anzitutto un disservizio agli utenti, senza avere la garanzia che ciò che verrà dopo il Safe Harbor (è facile immaginare che ci saranno altri accordi che lo sostituiranno, forse a livello nazionale e non più europeo) garantirà meglio la privacy dei cittadini. Un risultato sicuro, invece, sarà moltiplicare gli ostacoli alla libera diffusione dei dati. Finora è questa una delle eredità più importanti di Edward Snowden: aver dato eccellenti argomenti a chi, da Putin in giù, vuole una rete più insulare.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.