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Serve un movimento musicale nuovo in Italia

Stefano Pistolini

Ci piacerebbe che in Italia, adesso, succedesse qualcosa come fu il Tropicalismo nel Brasile piagato e represso della fine degli anni Sessanta. Intellettuali cantanti, significati complessi, messaggi, pensiero. Sarà mai possibile qualcosa di simile, da un mondo narcotizzato come quello della musica?

Mi piacerebbe che adesso, da un angolo qualsiasi del nostro paese, spuntasse un movimento musicale nuovo, qualcosa di forte, coi contenuti davanti alla forma, ma poi con una forma energica e travolgente, che parlasse direttamente alla gente più giovane d’Italia, chiamandola a raccolta, offrendole dei nuovi inni, chiedendo la partecipazione, l’entusiasmo, la congregazione, combattendo l’individualismo nichilista, la depressione, la voglia di fuga e soprattutto il tremendo grigiore italiano a cui ci siamo morbidamente oramai abituati.
Ci piacerebbe che in Italia, adesso, succedesse qualcosa come fu il Tropicalismo nel Brasile piagato e represso della fine degli anni Sessanta. Intellettuali cantanti, significati complessi, messaggi, pensiero. Sarà mai possibile qualcosa di simile, da un mondo narcotizzato come quello della musica? Chissà, non dobbiamo cercare avvisaglie, perché la clandestinità è indispensabile a sostenere l’avvento di fenomeni del genere. Stiamo con gli occhi aperti e le dita incrociate. E intanto, per agevolare psichicamente una sorpresa del genere, ascoltiamo chi sa come si fa e l’ha già fatto. Ascoltiamo il quasi 72enne ragazzo Caetano Veloso e spalanchiamo gli occhi con gratitudine per la meraviglia musicale che ancora ci amministra. In questi giorni di sottili equilibri e segnali contrastanti, ho volutamente cominciato ad ascoltare “Abraçaço”, niente meno che il suo 49esimo album, che pure gronda d’una forza, di una voglia di cercare, di sperimentare, inventare, da lasciare sbalorditi. Solo a Bob Dylan va un simile lasciapassare d’arte purissima in tarda età e fine produzione. Come Dylan, Veloso sublima la sua esperienza di vita in una ricerca musicale pura, nella quale sintetizza intenzioni culturali, un rapporto sofisticatissimo con la poesia musicale e il fascino d’una capacità esecutiva che è super-sintesi di quanto il Brasile ha prodotto dal proprio ventre nell’ultimo mezzo secolo musicale e, proprio secondo quel tipo di antropofagia culturale di cui il Tropicalismo fondato da Veloso e dai suoi amici nel ’69 si faceva erede, è pronto a fagocitare ogni genere di suggerimento, citazione, influenza, presitito e furto artistico si delinei all’orizzonte (almeno tre o quattro tipi di rock, ad esempio, dall’indie all’heavy, e poi funk, torch songs, soft ballads, jazz, ovviamente) per inscatolare il tutto in 50 minuti di musica per intenditori, a cui si resta aggrappati come a un salvagente nell’oceano, a partire dal clamoroso brano d’apertura “A bossa nova è foda”, un micro manifesto tutto “a posteriori” e in omaggio a Joao Gilberto (“la bossa nova è una figata”, potremmo grossolanamente tradurlo). Da lì, l’album decolla come uno zeppelin allucinato e il consiglio è di montarci. La title track (traduciamola “Abbraccioni” la parola con cui Caetano chiude le sue e-mail) ha un fascino magnetico, che esplode in un liberatorio assolo di chitarra, inatteso e lancinante. “Un comunista” è la canzone-racconto dell’album, dedicata a Carlos Marighella, figlio di un italiano e di una brasiliana discendente di schiavi africani. Militante marxista, Marighella fu uno dei capi della lotta armata contro il regime militare degli anni Sessanta – lo stesso che incarcererà ed esilierà Veloso e gli altri tropicalisti, per il loro progetto di creare una cultura forte, pensante, espressiva, popolare e attiva – e che infine lo ucciderà. Oppure la nostra preferita, “Vinco”, nella quale la formazione stabile di Veloso (il terzetto formato da Pedro Sà alla chitarra, Ricardo Dias Gomes al basso e Marcelo Calado alla batteria) è al meglio del suo agire musicale per sottrazione, anziché per cumulo, in un capolavoro di saudade che finisce per ipnotizzarci, noi poveri ammiratori occasionali e turistici.
Mi piacerebbe che in Italia spuntasse un Italianismo, capace di guadagnare l’attenzione, il rispetto e la partecipazione di un pubblico che ancora non riusciamo a intravedere, polverizzato com’è tra sacche di resistenza, abbandoni di massa, e intorpidimento da talent show. Un Italianismo dei giovani artisti. Con un occhio ai vecchi maestri venerabili, pronti a dettare la linea. Come fa Veloso con questi capolavori che sanno guardare avanti e indietro nello stesso tempo. Ma invece, di questi tempi, in Italia è invalsa la regola che sui 70 – l’età di Caetano – o anche prima, se la malinconia ti prende, si dichiara il proprio ufficiale ritiro dalle scene, la chitarra appesa al chiodo, il tempo da dedicare ad annusare le rose. Guccini, Fossati e gli altri, avete presente? Siamo sicuri che la loro scelta, oltre che misurata ed elegante, come ci si è affrettati a dichiararla, non sia un modo per tirarsi fuori, dichiararsi fuori tempo massimo, rimettere il mandato senza rinunciare al seguito, chiudere la propria esperienza facendone, alla fin fine, un lavoro, con tanto di scivolo pensionistico, anziché una vocazione? Cosa dalla quale, sappiamo, non è dato distaccarsi, partendo per la Florida, per Sanremo, o per i paradisi della terza età.

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