Il cemento a km zero, il cellophane che avvolge tutto e l'aereo ultraleggero

Federico Sarica

Viaggio tra le start up italiane. Quelle di successo (e quelle no).

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Francesco Tassone, 35 anni, e suo fratello Luigi, 29, vivono a Simbario, un paesino non lontano da Vibo Valentia in Calabria. Nel loro campo, l’edilizia, sono però due eroi globali. Il cemento a chilometro zero l’hanno inventato loro. O meglio, nel 2006 hanno pensato e creato Origami, un robot che di fatto è una fabbrica portatile di malta e cemento di soli sei metri quadrati. Potenzialmente una rivoluzione, se si pensa che per quel settore industriale il grosso dei costi e delle difficoltà è annidato proprio nel trasporto delle materie prime. Origami nasce da un’intuizione di Francesco: papà è del settore, spende moltissimo tempo e altrettanto denaro per far arrivare fin laggiù la malta, mentre potrebbe prodursela da sé. Si, ma come? Le fabbriche del cemento sono enormi. Conseguenza del ragionamento: il primo prototipo di Origami e l’idea che chiunque potesse comprarla e poi scambiarsi informazioni in rete sulle varie formule per arrivare al materiale perfetto, o quanto meno a quello necessario. Soldi pubblici, ovviamente, manco a parlarne; banche idem. Che si fa? Ci si ipoteca la casa, credendoci come non mai. Risultato dopo otto anni: oltre tre milioni di investimenti da venture capitalist vari, una ventina di dipendenti, la vetrina dell’Expo a Shanghai nel 2010, gli occhi addosso del mercato americano. Il segreto di Origami, che poi è la chiave del successo di Personal Factory (si chiama così l’azienda dei Tassone brothers), come hanno spiegato più volte i suoi inventori, sta nell’aver intuito che si poteva replicare il modello Coca-Cola alla spina: l’acqua e lo zucchero si trovano ovunque, inutile farseli mandare da chissà dove; la formula magica invece la fornisce la casa madre, in rete, grazie a un software avanzatissimo. Cemento per tutti, e addio vecchia e costosissima logistica.

 

Logistica che invece è il cuore pulsante del successo globale di Bcube, la multinazionale piemontese che dal 1952 spedisce qualsiasi cosa in qualunque angolo della terra. E se start-up in fin dei conti è una condizione dell’anima, lo si può essere anche a sessant’anni suonati. Come? Facendo esattamente quello che ha fatto la famiglia Bonzano, da tre generazioni alla guida del colosso logistico: ripensarsi costantemente nonostante il mezzo miliardo di fatturato, arrivando addirittura a cambiare nome per stare al passo con i tempi. Bcube infatti si chiama così solo dal 2014, prima era Argol Villanova, nome troppo ostico per chi è lanciato nella conquista del mercato globale delle cose che si muovono. E quante cose si muovono quotidianamente in questa nostra benedetta èra digitale: più siamo connessi e più entriamo in contatto con universi fino a ieri esotici e lontani, più se ne muovono. E’ matematica. Amazon vi dice niente? Per capire di che meraviglia di ingegno, voglia di fare e alta specializzazione stiamo parlando, basta visitare l’hub di Bcube all’aeroporto di Malpensa, dove la società piemontese gestisce oltre un terzo delle 450.000 tonnellate di merci che transitano ogni anno: animali tropicali, elicotteri, materiale radioattivo, macchine sportive, medicinali rari, posta semplice; tutto pronto per essere impacchettato e spedito. Scrive a proposito Vincenzo Latronico sul nuovo numero di Studio: “In molti sostengono che è in aziende come Bcube che stanno le speranze dell’economia italiana, se ancora stanno da qualche parte. Sono quelle che con espressione orribile ma precisa si chiamano multinazionali tascabili: società che si espandono in tutto il mondo senza perdere il radicamento nel luogo di origine”. E senza mai scordare, in questo caso, la vera ragione sociale del proprio essere, che poi è l’esatto opposto dei meccanismi diabolici che regolano la società iper burocratizzata che finalmente abbiamo tanta fretta di lasciarci alle spalle: soluzioni semplici a problemi apparentemente complicati. Non è un caso che alla domanda su come si impacchetti un elicottero Augusta per poi spedirlo in Sud America, un pezzo grosso di Bcube risponda “col cellophane”.

 

E chissà che prima o poi nel cellophane di Bcube non ci capiti pure un Prime, l’aereo ultraleggero in fibra di carbonio più veloce del mondo inventato nel 2011 a Monopoli da Luciano Belviso e Angelo Petrosillo, un ingegnere e un avvocato, entrambi trentenni. Col senno di poi, nonostante di volo si tratti, mai come in questo caso pindarico risulta un aggettivo fuori luogo: Blackshape Aircraft nasce infatti con pochissimi soldi – un prestito di soli 25.000 euro dalla regione – ma con idee chiare, ambizioni solide e competenze altissime. Oggi Blackshape, in cui nel frattempo ha investito l’imprenditore Vito Pertosa, dà lavoro a circa sessanta dipendenti, ha raddoppiato i metri quadri del proprio stabilimento, si muove attorno a un modello aziendale avanzatissimo, è il fiore all’occhiello del distretto aerospaziale pugliese, ha un accordo con Alenia nel campo della ricerca e dello sviluppo, e il suo Prime è venduto in ben ventiquattro paesi. Del resto pesa la metà rispetto ai concorrenti, consuma molto meno ed è più veloce. E’ vero, costa di più, ma la qualità, è noto, noi italiani siamo sempre stati bravi a farcela pagare volentieri. La Ferrari dei cieli: lo chiamano così in giro per il mondo. Italia, 2015. Tutto vero.

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