Scenari

Start-up bene, re-start-up meglio

Carlo Pelanda

La novità è data non dal fatto che nascano nuove imprese, ma che questa avvenga in base ad un rapporto con il capitale di rischio e il sistema universitario. Investire sulla restrutturazione di aziende già esistenti può essere più conveniente

Cresce in Italia l’enfasi sulle start-up, cioè sulla nascita di nuove aziende basate su una buona idea tecnologica o di mercato. Si osservano più giovani che progettano e propongono di crearle e  più investitori che si organizzano per finanziarle. A favore della sensazione che il settore start-up/venture capital sia in fase di decollo vanno annotati i movimenti in atto per costruire incubatori-acceleratori di impresa più robusti, fondendo i migliori tra quelli esistenti, e per aumentare la platea di fondi di investimento dedicati sia alla fase “seed” (la capitalizzazione iniziale a rischio totale) sia quella “growth” (aggiunta di capitale per nuove imprese che mostrano di sapere andare sul mercato) che è simile sul piano dell’analisi ai criteri adottati dai fondi di private equity. La novità è data non dal fatto che nascano nuove imprese, fenomeno costante in Italia, ma che la nascita avvenga in base ad un rapporto con il capitale di rischio e il sistema universitario.

 

La normalità italiana ha sempre visto nascere nuove imprese, ma sino a ora queste si sono sviluppate da operai specializzati che ad un certo punto si staccavano dall’azienda dove avevano imparato un mestiere, o da imprese artigiane che crescevano di scala, comunque sostenute da credito bancario e non da capitale di investimento e con meno o nessuna relazione con le università. Per inciso, i ricercatori erano meno propensi ad ingaggiarsi in attività di impresa, da qualche anno lo sono di più. In tal senso i circa 1.500 progetti di nuova impresa in attesa di prima capitalizzazione o in procinto di ottenerla vanno visti come una aggiunta al normale ciclo di nascita di nuove aziende e ciò giustifica la sensazione che il formarsi di un mondo delle start-up in relazione con il capitale di rischio sia un nuovo motore di re-industrializzazione dell’Italia nonché l’emergere di una moda. Molti organi stampa, infatti, si stanno accorgendo del fenomeno e che è, appunto, di moda.

 

Questa rubrica commenta con estremo favore queste nascite anche perché, con altra giacca, chi la scrive è da decenni investitore di ventura, evidentemente ed avidamente interessato: finalmente, con un ritardo di circa 30 anni, la California è arrivata anche in Italia. Ma proprio la specializzazione nella finanza di investimento, che implica il chiedersi sempre dove stia il vero business, porta a segnalare che, nell’orizzonte a tre anni nel mercato italiano, le maggiori opportunità si trovano nell’area delle re-start-up.

 

Cosa sono? Per lo più nuove aziende nate da ristrutturazioni dovute a fallimenti di imprese precedenti o revamping (rivitalizzazione) di aziende andate in crisi a causa della recessione, ma ancora vive, o perché l’imprenditore è invecchiato, non ha managerializzato l’impresa ed ha figli che non vogliono continuare il lavoro o troppo inadatti per affidarglielo. A ciò si aggiungano aziende che si stanno spegnendo, cioè in procinto di dover accedere a un concordato. L’insieme potrebbe arrivare ad un numero di imprese “buone” attorno alle 4.000 unità, probabilmente di più, con ricavi annuali tra i 5 ed i 25 milioni di euro. Il punto: queste re-start-up hanno un vantaggio sulle start-up ex novo perché sono già sul mercato mentre per le seconde il “go to market” è, per lo più, un obiettivo a 3-5 anni. Inoltre, per far crescere un’azienda ristrutturata già sul mercato, se il settore è buono, l’investimento è calcolabile con più precisione, mentre nella catena di capitalizzazioni di una azienda appena nata è sempre incerta la quantità di iniezioni successive di capitale (add-on) necessarie a far arrivare l’impresa sul mercato. Soprattutto, molte re-start-up non hanno mai fatto emergere nei bilanci, né finanziarizzato, il loro know how che in quasi tutti i casi è di valore notevole, in alcune sorprendente.

 

[**Video_box_2**]Per esempio, chi scrive ha recentemente fatto finanziare una re-start-up manifatturiera nel seguente modo: perizia del know how (brevetti e competenza specifiche esclusive non-brevettabili, ma perimetrabili e calcolabili); cessione del know how ad una società di cartolarizzazione in giurisdizione con norme favorevoli (Lussemburgo, Irlanda); tale società, oltre a ridare in esclusiva l’uso del know how all’azienda, ha pagato il know how stesso emettendo un’obbligazione, in caso quotabile su un mercato titoli, con sottostante il suo rendimento; l’azienda poi ha utilizzato queste obbligazioni come collaterale per ottenere una linea di credito, da una banca non-italiana, per un valore pari a circa il 45 per cento del valore di know how rappresentato dall’obbligazione; nel fare così l’azienda perde un po’ di margine per servire l’obbligazione, ma incassa comunque in altra casella del bilancio i proventi dell’obbligazione stessa con i quali paga gli interessi della linea di credito. In sintesi, l’azienda, che aveva problemi di accesso al credito perché emersa da un concordato, è stata ricapitalizzata e portata in cash flow positivo con un minimo di investimento di denaro liquido e un massimo di finanziarizzazione del know how mai prima esplicitato.

 

Il punto: gli re-start-up, poiché già sul mercato da tempo, permettono formule di capitalizzazione della (ri)crescita rapida molto più efficienti e meno rischiose di quelle necessarie per le start-up ex novo. Con questa segnalazione non si vuole togliere enfasi al mondo nascente delle start-up, ma mostrare che, almeno per un triennio di coda della crisi, il business più interessante per il capitale di ventura è quello delle re-start-up.

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