Pierluigi Pizzaballa, 86 anni da Bergamo, in uno scatto di qualche anno fa con la riproduzione della sua rarissima fotografia Panini (foto Ansa)

Il foglio sportivo

L'uomo Pizzaballa e la sua figurina 

Antonello Sette

Il cognome sbagliato, Domenghini come fratello e scherzo della Panini che lo ha reso famoso

"A diventare portiere non ci avevo mai pensato. La mia fortuna è stata la piccineria. Ero il più piccolo dei miei fratelli e, quando mi portavano al campo dell’oratorio a giocare a pallone, mi dovevo giocoforza accontentare dell’unica porzione di campo dove nessuno voleva stare. Fra i pali mi sono trovato talmente a mio agio, da costruirci una passione. Ho scoperto sulla mia pelle che portiere è bello, forse perché è l’unico che ha tutti davanti e nessuno dietro, un bel modo di affrontare la vita”.

 

Pierluigi Pizzaballa, 86 anni da bergamasco a denominazione d’origine protetta, è stato un portiere di valore, ma a farlo uscire dalla nutrita schiera dei bravi e ignoti è stato da subito un cognome, palesemente inadeguato per un portiere, prima ancora che entrasse a pieno titolo fra gli immortali per una figurina introvabile sul mercato dei Panini dipendenti, e di risalire un’altra volta alla ribalta della cronaca, come parente, più o meno stretto, di un Pizzaballa uno e trino, che ha rischiato di diventare Papa all’ultimo Conclave…

“Sapesse quanti, fra giornalisti e addetti ai lavori mi hanno caldamente invitato a cambiare cognome. Dicevano che uno che si chiama Pizzaballa è più adatto a sfornare pizze, che a tenere “la balla” fuori dalla porta. A un cognome d’arte più consono al ruolo non ho mai pensato. Mi sono tenuto stretto la mia carta d’identità e, per come è andata, ho fatto più che bene”.

 

Da dove cominciamo?

“Dal Verdello, che è stata la mia prima squadra vera, anche se c’era già stato un provino naufragato per una sorta di diluvio universale. Gli osservatori del settore giovanile dell’Atalanta insistevano perché mi mettessi ugualmente in porta, ma non mi ero portato un ricambio e non potevo buttarmi nel fango e poi tornare a casa sporco e inzuppato. Del resto, a quei tempi, i ricambi scarseggiavano anche quando ci si doveva cambiare da una giornata di sole all’altra. Declinai l’offerta, ma fortunatamente mi ritrovai, di lì a poco, a indossare la divisa del Verdello. Due anni di gavetta giovanile e, poi, a 15 anni, l’esordio in Serie D. Ero poco più di un bambino cresciuto in fretta, con a fianco e contro uomini fatti di 25 e 30 anni. C’era un altro ragazzo, ancora più imberbe di me, che bruciava il campo e le tappe di una carriera straordinaria che lo avrebbe portato sul tetto d’Europa e all’ultimo gradino di quello del mondo. Angelo Domenghini è stato il mio compagno sin dall’inizio del viaggio, il fratello più piccolo che non ho mai avuto. A Verdello era ancora il passatempo della domenica di uno che per mestiere faceva l’apprendista garzone di una drogheria e non poteva neppure immaginare quello che sarebbe venuto dopo. E, invece, l’anno seguente, ero già nelle giovanili dell’Atalanta, insieme al piccolo Domenghini, naturalmente”.

 

Pronti via ed è Serie B con i grandi. Era l’ultimo giorno di maggio del 1959…

“Ho 19 anni quando arriva il giorno dell’esordio in trasferta a Novara, dopo le tante panchine all’ombra di Zaccaria Cometti. In quell’Atalanta c’era tanta bella gente. C’era Humberto Maschio, che sarebbe passato alla storia come uno dei componenti del magico trio argentino dalla faccia sporca, insieme a Omar Sivori e Antonio Angelillo. C’erano Flemming Nielsen e l’attaccante Hasse Jeppson, che sarebbe stato acquistato dal presidente del Napoli Achille Lauro per l’iperbolica cifra di 105 milioni tondi tondi. E, soprattutto, c’erano i quattro ragazzi cresciuti insieme e insieme diventati uomini e professionisti del pallone. Il quartetto del cuore era, e resta composto, oltre che da me e Domenghini, da Alfredo Pesenti e Franco Nodari. Amici oltre il campo. Amici per la vita”.

 

L’Atalanta, la Roma, il Verona, il Milan e ancora Atalanta, due Coppe Italia, il premio Combi come miglior portiere di Serie A, la convocazione al Mondiale della disfatta coreana, che condivide solo formalmente come terzo portiere, l’esordio vittorioso in Nazionale da subentrato in un Italia-Austria 1 a 0, gol di Tarcisio Burgnich. Quale è il ricordo più bello…

“Quello del mio esordio in Serie B con l’Atalanta. Lo stadio, il saluto, mentre correvo verso la porta, a tutta quella gente, con la maglia della squadra della mia città, il primo pallone fra le mani, che sembrava leggero come un sogno”. 

 

Cognome e nome Pizzaballa Pierluigi, scritti tutti attaccati. Che portiere è stato?

“Non ero dotato di una grande struttura fisica. Sopperivo con l’intuito, con l’agilità, unita alla forza di gambe e, soprattutto, con la geometria. La geometria è fondamentale per un portiere, come mi diceva Carlo Ceresoli, il preparatore dell’Atalanta che più di tutti mi ha formato. Bisogna prendere le misure, contare i passi, tracciare le diagonali. Portiere si nasce, ma non ci improvvisa”. 

 

I portieri di oggi sono bravi geometri?

“I portieri, così come continuo a intenderli io, non esistono più. Con il passare degli anni, sono diventati difensori aggiunti, costretti ad avviare dal basso ogni azione, perché nessuno lo potrebbe fare più dal basso di loro. E, paradossalmente, si perdona più un gol subito per una papera clamorosa che una ripartenza regalata con un appoggio sbagliato. Con i piedi sono sicuramente più bravi di noi, ma con le mani… Vedo errori, anzi orrori, anche tecnicamente inspiegabili”.

   

Qual è stato il più grande di tutti?

Lev Yashin ci guarda ancora da un piedistallo irraggiungibile. Ho avuto la fortuna di osservarlo agli allenamenti del Mondiale. Possedeva all’ennesima potenza tutto quello che uno si aspetta da un portiere: fisico, agilità, potenza, reattività, senso della posizione e una meravigliosa eleganza nei movimenti che nessuno ha mai avvicinato”.

 

Lei abbandona il calcio giocato alla veneranda età di 41 e passa anni, ma la gloria vera è arrivata con la figurina Panini, a lei intestata, più introvabile della storia, diventata oggetto di culto, l’apparizione invocata come un miracolo profano. Ci svela, una volta per tutte, il mistero della figurina che non c’era…

“Me lo sono domandato, come tutti, ma non ho trovato neppure io una spiegazione plausibile. Mancano le prove e scarseggiano pure gli indizi. C’è chi dice che il fotografo non ha scattato la foto, perché ero infortunato e non mi ha trovato. Altri pensano che sia sparita dagli archivi della Panini. Un mistero che l’ha resa leggendaria come nessun’altra figurina. Resta, e resterà chissà per quanto altro tempo, una bella favola da raccontare. Io, che non ho mai acquistato, né regalato, un pacchetto di figurine, ne ho solo una, speditami da un professore di Avellino, incontrato a un evento della Panini, che fortunatamente ne aveva una di troppo. Ogni tanto la guardo. Più che come un cimelio, come un attestato di benemerenza”.

 

Non bastasse la figurina mancante, lei è risalito agli onori della cronaca per ragioni meno prosaiche, come quasi omonimo e probabilmente parente del Patriarca di Costantinopoli Pierbattista Pizzaballa, che ha rischiato di uscire dall’ultimo Conclave, vestito di bianco come usano i Papi. Siete parenti?

“Sicuramente sì, ma sino a che punto non glielo so dire. Forse siamo figli di cugini. Forse il legame di parentela viene un po’ più da lontano. L’ho incontrato qualche anno fa a Bergamo, dove era venuto per tenere una conferenza. Mi ha detto che era felice di poter finalmente conoscere l’unico Pizzaballa più famoso di lui. Ho fatto il tifo per lui ed ero pronto, in caso di elezione, a chiedergli udienza e a regalargli l’unica figurina in mio possesso. Magari in cambio di una sua immagine autografata”.

 

Pizzaballa, c’è qualche sogno che gli è sfuggito di mano?

“I miei sogni li ho coronati tutti. Volevo giocare in Serie A e ci sono arrivato, indossando la maglia della squadra vanto della città dove sono nato. Volevo trasmettere tutto quello che ho imparato, anche fuori campo. E sino a quando le forze e i medici me l’hanno permesso, ho fatto da maestro a migliaia di ragazzi. Il mio calcio non è solo tirar calci a un pallone. È passione, rispetto delle regole e degli altri, dedizione, solidarietà, la capacità di fare squadra. Il calcio per me è una straordinaria scuola di vita. Non è stato facile. A volte ci sono riuscito, altre volte no, ci ho messo tutto l’impegno e l’entusiasmo di cui sono capace”.

 

E oggi?

“Ho smesso anche di giocare a tennis. Vado allo stadio a vedere la mia Atalanta, mi godo la famiglia, faccio il nonno. Con Lucia, l’anno prossimo, a Dio piacendo, festeggeremo 60 anni di matrimonio. Un colpo di fulmine che ci ha coinvolto tutti e due allo stesso modo. Un grande amore vissuto alla pari. Fra noi non c’è mai stato un più e un meno. È stato questo il segreto. I miei due figli Pierpaolo e Sara mi hanno regalato quattro splendidi nipoti: Maria, Agata, Anna e finalmente Andrea”.

 

Perché finalmente?

“Perché è l’unico maschietto e ha tutti i requisiti e il talento per diventare un vero portiere. Sarebbe bello se ci fosse un altro Pizzaballa, magari più bravo e più bello di me. È ancora solo una suggestione sentimentale, ma dovesse succedere, la foto in divisa per la Panini spero di fare in tempo a scattarla io. Sì, va tutto bene e, se qualcuno fosse interessato, potrei interpretare alla perfezione lo spot dell’anziano felice”.
 

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