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verso la cerimonia

Un Pallone d'oro sempre meno solenne

Francesco Caremani

Premiare ancora “il migliore” calciatore di un'annata calcistica sembra un esercizio vintage. Anche perché, per paradosso, più dati abbiamo, meno univoco è il verdetto

Per decenni il Pallone d’Oro è stato il santuario del calcio. Una palla dorata che non era solo un trofeo, ma una corona, il simbolo di un’epoca. C’era un’aura: quando Michel Platini lo sollevava a metà anni Ottanta, o George Weah lo riceveva come primo africano nel 1995, non era soltanto un premio individuale, era la consacrazione di un mito. Oggi, invece, l’incanto sembra affievolirsi. La domanda non è se il Pallone d’Oro abbia ancora senso, ma se abbia ancora la stessa consistenza, la stessa gravità che un tempo bastava a fissare nella memoria collettiva un campione.

  

Colpa del calcio o dei protagonisti? Forse di entrambi. Il calcio contemporaneo ha accelerato i ritmi e moltiplicato i parametri. Non c’è più una sola Coppa dei Campioni, ma Champions, Mondiali, coppe nazionali, Nations League, statistiche che inseguono expected goals e big data. In questo mare di numeri, ridurre tutto a “il migliore” sembra un esercizio vintage. È il paradosso: più dati abbiamo, meno univoco è il verdetto. Eppure il premio continua a pretendere di eleggere un re assoluto.

   

Dall’altra parte ci sono i protagonisti. La rivalità tra Lionel Messi e Cristiano Ronaldo ha gonfiato il Pallone d’Oro fino a trasformarlo in un duopolio, con quattordici edizioni monopolizzate da due soli uomini. È stato epico, ma ha anche saturato il mito. Anno dopo anno la sensazione è diventata quella di un copione ripetuto: stessa scenografia, stessi discorsi, stessi confronti. La gloria del premio si è confusa con quella delle carriere dei due giganti, oscurando altri meriti. Iniesta, Xavi, Maldini, Lewandowski: grandi esclusi che oggi pesano come ferite nella credibilità del trofeo.

  

Le vittorie discusse raccontano bene questa perdita di consistenza. Messi nel 2010 davanti a Iniesta, autore del gol che consegnò il Mondiale alla Spagna. Cristiano Ronaldo nel 2013, con la votazione riaperta ad hoc dopo i suoi gol alla Svezia. Messi ancora nel 2021, dopo una stagione interlocutoria ma nobilitata dalla Copa América, con Lewandowski confinato al ruolo di eterno secondo. Sono episodi che hanno trasformato un premio di merito in un premio di narrazione. Conta meno il rendimento, conta di più la storia che riesci a rappresentare.

 

Eppure, nonostante tutto, il Pallone d’Oro continua a esercitare fascino. Perché il calcio ha bisogno di volti, di simboli che condensino un’epoca. Cruijff per il calcio totale, Van Basten per la perfezione tecnica, Ronaldo il Fenomeno per la potenza selvaggia, Modrić per la resilienza di un piccolo paese. Senza il Pallone d’Oro avremmo meno icone, meno foto da tramandare. Il problema è che la sacralità del premio non regge più come un tempo: ora appare più fragile, quasi dipendente dalla spettacolarizzazione.

  

Dunque: colpa del calcio che ha cambiato pelle, o dei protagonisti che hanno monopolizzato e poi logorato l’aura del premio? Probabilmente entrambe. Il Pallone d’Oro resta, ma ha perso parte della sua solennità. Oggi non è più una verità assoluta, è una fiction collettiva che ci raccontiamo per tenere vivo un mito. La gloria non è svanita, ma si è scolorita. Eppure, come accade coi vecchi rituali, continuiamo a crederci: perché il calcio, in fondo, ha bisogno di un re da incoronare, anche quando la corona non brilla più come una volta.

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