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Il Foglio sportivo

Lazio-Roma, il derby del vorrei e non posso

Alessandro Catapano

La sfida cittadina porterà Sarri e Gasperini a violentare la propria natura. Le due squadre si ritrovano ancora una volta a inseguire un riscatto che sembra sempre rimandato 

Ci risiamo. Nell’eterno ritorno dell’uguale che governa le vicende calcistiche della Capitale, dove ogni evento, ogni scelta, ogni dolore o gioia che viviamo, ritorna esattamente uguale a se stesso, per un numero infinito di volte, questo derby anticipatorio ci scalfisce appena, disegnando sui nostri volti consunti da lunghe e mediocri stagioni, più o meno la stessa espressione che il “re della mezza” di C’eravamo tanto amati riserva ai tre commensali ormai attempati che si ritrovano a tavola e annunciano che non pagheranno, “e sai che novità…”.  Del resto, non c’è nulla di nuovo, in questa stracittadina che alla quarta giornata già rappresenta uno snodo fondamentale nella stagione di Lazio e Roma, non ancora un punto di non ritorno, ma certamente una sfida da non perdere, come tante, tantissime altre volte, per non precipitare nello psicodramma. Nemmeno l’orario di inizio (alle 12.30), che tante polemiche ha suscitato (e non si capisce perché), è una novità. È già accaduto, nel 2017, anche in quell’occasione per ragioni di sicurezza (fatevene una ragione, cari laziali e romanisti: il derby in notturna non ve lo potete permettere, nell’oscurità vi scappa sempre di menare le mani o, peggio, le armi), vinse la Lazio 3-1, la Roma, che veleggiava al secondo posto, perse la testa, De Rossi si distinse per volgarità (e anche qui, ahinoi, nulla di sorprendente). Una novità ci sarebbe, l’esordio di Gasperini, ma l’approccio è stato molto deludente, in linea con tanti suoi predecessori: allenamenti blindati, fuori fotografi, giornalisti, perfino i social del club. Non un’immagine degli allenamenti deve essere veicolata all’esterno. Dovessero scorgere, Sarri e i suoi, in una smorfia di Soulé o in un ghigno di Koné, elementi utili a capire con chi e come giocherà. Il tecnico toscano, d’altronde, parte avvantaggiato: sa cos’è il derby a Roma, soprattutto sa come maneggiarlo, ne ha vinti tanti, ogni volta lasciando sul campo qualche mese di vita. “La partita peggiore che abbia mai dovuto preparare nella mia carriera".


Mamma mia. Anche questo continuo evocare il rischio di una Caporetto calcistica, è un disco rotto che non smette di suonare (male). Se non fosse per la calura che continua ad avvolgerci coi suoi fraterni tentacoli al pari della miseria, approcciandosi a questo derby ci si sentirebbe come in autunno le foglie sugli alberi, per dire di quel senso di fragilità, una vita in bilico, a lungo indagata dai poeti, da Omero a Ungaretti. Una condizione che i soldati del calcio, costantemente in balia dei soffi del tifo, aleatori per antonomasia, ben conoscono. E sopportano. Ordunque, giunti all’età matura, la ragione dovrebbe prevalere sui sentimenti, ma finisce puntualmente per soccombere alla lezione di Pascal, secondo il quale, com’è noto ai più, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. E questo spiega, più o meno a ogni latitudine, ma particolarmente nella Città Eterna, dove oltre al ponentino soffiano i venti spesso di libeccio del romanismo e della lazialità, perché, pur lungamente vessati dai colpi della frustrazione, ci si ostini a guardare alla realtà calcistica con l’immutato candore del fanciullino di Pascoli, incapaci di superare la fase in cui l’estate è solo un interminabile ed estenuante passaggio tra un campionato e l’altro, e la vita – non solo la propria, ma anche quella di malcapitati familiari – è scandita dal calendario della Serie A (e di coppe e coppette, per chi le fa). 


D’altronde, la serialità del calcio - c’è sempre un’altra partita da giocare, un’altra stagione da vivere - è benzina che continua ad alimentare la passione e disincentivare il distacco, nonostante puntualmente l’esito lasci con l’amaro in bocca. Anzi, forse proprio in virtù dell’insoddisfazione che genera. “Grande passione e poche vittorie, ma forse anche per questo indimenticabili”, disse il romanista Massimo D’Alema nell’orazione funebre che a Trastevere dedicò al mitico Vezio Bagazzini, per anni gestore del bar dietro alle Botteghe Oscure, compagno di partito e di tifo. E allora ogni anno da queste parti all’apertura della campagna abbonamenti si registrano code (ormai virtuali) degne degli assalti all’ultimo modello di iphone. Tra romanisti e laziali, quest’estate sono stati in settantamila, quasi equamente distribuiti. E d’accordo, i romanisti li conosciamo – “la Roma è come una mamma, una sorella, ecc…” -, gli basta poco per esaltarsi e Gasperini ha saputo subito solleticarli nell’orgoglio (più che nella pancia e nei bassi istinti, come faceva Mourinho), perciò per loro andare allo stadio continua ad essere un must, tradizione inaugurata con Josè, confermata con De Rossi, rinvigorita da Ranieri, tenuta accesa da Gasp. Chi sorprende, è il tifoso della Lazio. Non perché gli manchi senso di appartenenza o attaccamento alla squadra, ma perché, rispetto al romanista, tradizionalmente affronta le vicende calcistiche con maggior spirito critico, poco incline a condividere quella massima romanista per cui la squadra “non si discute, si ama”. A trascinarlo allo stadio, più che il ritorno di Sarri potrebbe essere la resistenza di Lotito (e cos’è questo, se non l’eterno ritorno dell’uguale?), che, evidentemente, e per quegli strani cortocircuiti che generano le traiettorie del pallone, crea dipendenza. E chissà quale reazione provocherà nel tifoso biancoceleste sapere che Lotito ha recentemente ricevuto da un fondo americano un’offerta da 450 milioni di euro per l’acquisizione del club, alla quale il senatore avrebbe risposto rilanciando a 520.
“Un pubblico da Champions”, lo ha definito Gian Piero Gasperini – e la definizione vale indifferentemente per gli uni e gli altri – che la Champions, però, non può vedere, se non quella degli altri in tv, e chissà quando gli restituiranno questo privilegio. Intanto, si godranno un derby depotenziato già in partenza, perché per salvare le penne Sarri e Gasperini violenteranno la propria natura, l’uno aprendo al lancio lungo l’altro concedendosi al possesso palla. È o non è il derby del vorrei ma non posso? Come quasi tutta la nostra storia, del resto. Il futuro è già passato, diceva quello. Speriamo di non annoiarci.

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