Walter Riccomi al Tour de France 1976 (foto Wikimedia Commons)

Tournanti #4

Quel Tour de France durante il quale Walter Riccomi volava

Marco Pastonesi

Il corridore italiano fu quinto nella Grande Boucle del 1976 a 12’39” dal vincitore, il belga Lucien van Impe, ma a soli 31” dal terzo, Raymond Poulidor

Tour de France 1976, quattromila chilometri precisi da Saint-Jean-de-Monts in Vandea fino ai Campi Elisi a Parigi, Eddy Merckx e Felice Gimondi assenti, tutti gli altri presenti, l’Italia si affidava a Gibì Baronchelli, ma Gibì non andava. “La prima volta mi fermai e lo aspettai, la seconda volta mi fermai, lo aspettai e lo spinsi, a parole e a braccia, poi la sera andai dal direttore sportivo e gli proposi che visto che andavo più forte io, forse era meglio se facessi la mia corsa, e contrariamente a quello che temevo, mi disse di sì”. All’Arco di trionfo arrivò quinto, Walter Riccomi, a 12’39” dal vincitore, il belga Lucien van Impe, ma a soli 31” dal terzo, l’eroe del romanzo popolare francese, Raymond Poulidor. “Volavo”, sospira Riccomi.

Lucchese di Montecarlo, poi – subito e sempre – di Altopascio, padre operaio e madre casalinga, secondo di cinque figli, quinta elementare e – subito – elettricista, da ragazzino Walter andava dietro le corse con la sua biciclettina. “La prima volta dietro, la seconda dentro o quasi. Se vanno forte così, ragionai fra me e me tenendo testa agli altri in gara, allora posso correre anch’io”. Magari non con la biciclettina, ma con una bicicletta vera. “Me la dette un meccanico artigiano di Altopascio. E forse non me la fece neanche pagare”. La prima corsa per vedere l’effetto che faceva, le altre per prenderci confidenza, e quando la confidenza diventò gusto, Riccomi cominciò a vincere: “Una sì e una no, ma bisogna considerare che c’erano tanti avversari”. Riccomi si difendeva dovunque, ma non a cronometro: “Sarà stata la solitudine, correre senza gli altri ma con il tempo”. E già da dilettante una vittoria sfiorata, secondo al Giro d’Italia, e un’esperienza meravigliosa, Olimpiadi 1972 a Monaco di Baviera: “Non tanto per la corsa, quarantanovesimo in gruppo, ma per tutto quello intorno la corsa”. Due giorni dopo l’attacco terroristico. “Ma il clima, l’ambiente, l’atmosfera, il prestigio, un’occasione più unica che rara”.

Lo chiamavano “Morino”, professionista a 23 anni, ruolo gregario: “La mia corsa era quella del capitano, il mio capitano era Baronchelli, che da dilettante aveva vinto Giro e Tour, il mio compito stargli vicino il più a lungo possibile soprattutto in salita. A quel tempo le salite si facevano di forza, di potenza. Non c’erano rapporti agili, bisognava spingere, e se non ne avevi non andavi. E non bastava mangiare le bistecche, quante ne ho mangiate, tante, quando ero dilettante i macellai di Altopascio quasi facevano a gara per regalarmele. Settimo al Giro del 1975, quinto al Tour del 1976, settimo al Giro del 1977… Qualche vittoria nei giorni di libertà, tre volte azzurro ai Mondiali e una volta riserva”. Soprattutto quel Tour de France del 1976: “Sesto nella tappa di Mulhouse vinta da Maertens, una delle sue otto vittorie di tappa. Terzo a Pla-d’Adet, Pirenei, dietro a van Impe e a Zoetemelk, ma davanti a Ocana. E quinto sul Puy de Dome, un vulcano spento nel Massiccio Centrale, dietro a Zoetemelk, van Impe, Galdos e Poulidor, a 42” dall’olandese, ma bisogna considerare che dopo di me c’era un baratro, il decimo giunse al traguardo a più di 10’. E bisogna considerare anche che un giorno un tifoso, non so se consapevolmente oppure no, mi dette una bottigliata sulla bocca, da quel momento non riuscii più a mangiare, ma soltanto a bere. Due settimane, con quel caldo, quella fatica, quei chilometri, quelle salite, solo a forza di cibo liquido. Sarei dovuto, forse sarei anche potuto tornare a casa, invece non mi arresi. La verità è che non mi sono mai arreso da quando sono nato”.

Riccomi si rivelava in salita: “Crisi, cotte, mai. Lottavo, e lo faccio anche adesso che, a 75 anni, la mia memoria comincia a perdere qualche colpo. Allora facevo la vita del corridore: mi allenavo bene, mangiavo giusto, andavo a letto presto, non sgarravo. E lottavo. Lottavo per me, i compagni, il capitano, specialmente quando il capitano dava l’esempio e andava più forte di noi. Lottavo per la famiglia, per risparmiare e comprare una casa, ma devo dire che si guadagnava bene già da dilettanti e poi ancora di più da professionisti. Lottavo anche contro un corridore fenomenale come Eddy Merckx, difficile tenerlo, anzi, impossibile, ci si provava, ma quando partiva, decollava. Lottavo anche per i miei tifosi. Fra loro anche Adriano De Zan, il telecronista. Mi voleva bene. Mi voleva così bene che mi vedeva dove non c’ero e mi nominava – Ric-co-mi! - anche quando non c’ero. E così a casa, ad Altopascio, erano tutti felici e contenti”.

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