Martìn Emilio Rodriguez

C'era un colombiano al Giro d'Italia che non amava la salita: meno 43 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Martìn Emilio Rodriguez è stato il primo colombiano a partecipare alla corsa rosa e il primo a vincere una tappa. Era però l'esatto contrario del luogo comune recente dei colombiani grandi scalatori. La sua impresa nel Giro del 1975

Colombiani, gran scalatori. E’ detto, convinzione, quasi sempre verità. Perché quando la strada sale attaccano e quando diventa montagna affollano la testa della corsa, o almeno ci provano, sempre. Così è stato per decenni, sarà per la morfologia del terreno, sarà per le corse che piacciono oltreoceano, sarà per conformazione fisica.

 

Colombiani, gran scalatori. Ma ci vollero anni. Perché la tradizione delle fughe alpine dei folletti sudamericani è cosa recente, di trent’anni e poco più. Perché le montagne come territorio di conquista sono traguardo di quegli anni che scavalcano gli Ottanta per arrivare ai Novanta. Perché prima di tutto, fu la pianura il teatro di battaglia, il palcoscenico di conquista. Perché prima degli Herrera, dei Parra o dei Rincon, ci fu Martìn Emilio Rodriguez.

“Cochise” fu l’apripista della Colombia nel grande ciclismo, il primo colombiano a sbarcare in Europa seguendo il percorso inverso dei conquistatori. Ci arrivò a trent’anni dopo aver vinto tutto quello che c’era da vincere nell’America del sud. Ci arrivò fregandosene delle montagne e di quello che negli anni a venire sarebbe diventato un luogo comune: colombiani, gran scalatori.

 

Rodriguez era uomo da pista, che alle sfide contro la salita preferiva quelle contro il tempo, che alle volate preferiva l’agguato. Finisseur, colui che anticipa gli sprint tentando di partire a pochi chilometri dal traguardo. Finisseur, ossia anticipatore, ossia il destino del “Cochise”. Se ne accorsero nel 1973 a Forte dei Marmi quando il colombiano scattò alla disperata a millecinquecento metri dall’arrivo e riuscì a resistere al rientro del gruppo, beffando Marino Basso e Roger De Vlaeminck.

 

Rodriguez era uomo da fughe e ogni volta che Felice Gimondi gli dava carta bianca tentava la sortita. Per tre anni gli fu gregario fedele, sempre disponibile a farsi motrice in testa al gruppo per rintuzzare le fughe altrui. Sempre generoso avanguardista quando era il suo turno. Al Giro del 1975 il campione bergamasco lo liberò dai compiti di gregariato il 5 giugno.

 

Si correva la diciannovesima tappa, la Baselga di Piné-Pordenone, 175 chilometri, e Cochise fu lesto a formare la fuga giusta al mattino. Uno scatto dopo l’altro, cinquanta chilometri di media oraria in partenza e sette uomini davanti. Sette uomini di fondo, cinque almeno più veloci di lui. Così Rodriguez arrivato ai cinque dall’arrivo con oltre undici minuti sul gruppo decise che allo sprint non ci sarebbe arrivato, che la gioia del successo era una questione personale, da non dividere con nessuno. Scattò, innestò il rapportone e iniziò a testa bassa a involarsi nella pianura friulana. Le sue non erano pedalate, erano folate di Bora. Solo Adriano Pella riuscì a stargli dietro. Il colombiano apripista a spingere il rapporto più duro, l’italiano a cercare di non perdere contatto. Sotto il traguardo Rodriguez accelerò ancora e Pella poté solo vederlo esultare.

 

Vincitore: Fausto Bertoglio in 111 ore 31 minuti e 34 secondi;

secondo classificato: Francisco Galdós a 41 secondi; terzo classificato: Felice Gimondi a 6 minuti e 18 secondi;

chilometri percorsi: 3.963.