
Foto Ansa
IL RINGHIO DI MOU
Per come siamo messi, cara Figc, la scelta migliore per la Nazionale è Mourinho
Un tecnico straniero e così divisivo a gestire la nostra Nazionale? E’ una preoccupazione del tutto inutile
Se al moribondo serve il ringhio di Gennaro Gattuso da Corigliano Calabro, un tempo feroce pitbull del centrocampo del Milan, ma oggi innocuo come il cagnetto che Aldo, Giovanni e Giacomo perdono in autostrada – “Ringhioooooo” – in “Tre uomini e una gamba”, tanto vale affidarsi al ghigno di José Mourinho da Setúbal, che in quanto a cattiveria agonistica – uno dei suoi marchi distintivi – continua a esserne portatore (non sempre sano) e untore (difficile non esserne contagiato).
Partiamo dalla cronaca di queste ore. Sembrava avesse la consistenza di un gelato al sole, la provocazione lanciata nell’etere pallonaro da quel filibustiere di Roberto D’Agostino, alias signor Dagospia (del resto, cosa non si fa al giorno d’oggi per qualche clic in più). Ma col passare di questi giorni incerti, nel silenzio dei poco innocenti vertici federali, tra lo sgomento dei più, e soprattutto se la concorrenza è quella che raccontano gli addetti ai lavori (occhio, però, ci prendiamo sempre meno), la boutade si è fatta un poco più seria, diciamo non del tutto campata in aria, che almeno non generi ilarità ma, piuttosto, qualche seria riflessione. Da queste parti, centro di Roma, fisicamente non troppo distanti dalla meravigliosa Villa Borghese, su cui affaccia il palazzo federale (invero non altrettanto bello, anche l’edificio avrebbe bisogno di una bella rinfrescata) di via Allegri, ci abbiamo riflettuto, e ci è sembrata un’idea da abbracciare. E siccome non si può ancora escludere nulla, abbiamo deciso pure di cavalcarla.
Del resto, al momento di andare in stampa, la situazione è ancora fluida (nel senso di mutevole). Se abbiamo capito bene, i nomi presi seriamente in considerazione sono Gennaro Gattuso, Fabio Cannavaro e Daniele De Rossi, citati in ordine di preferenza (del presidente federale, Gabriele Gravina, e del direttore tecnico, Gigi Buffon, che con tutti e tre ha condiviso la straordinaria esperienza del Mondiale 2006). Cosa cerca in questi profili la Federcalcio? Due cose, fondamentalmente. La prima: un legame profondo con la maglia azzurra. Militanza, vittorie e sconfitte, anni di gloria, altri meno, comunque grande senso di appartenenza. Che, ça va sans dire, siano in grado di trasmettere a giocatori che al primo dolorino (vero Calafiori? Vero Buongiorno? Per non parlare del simpatico Acerbi) si chiamano fuori (e chi si estranea dalla lotta, si sa…). La seconda, che è conditio sine qua non perché la prima sia trasmessa: un carattere forte, diciamo determinato, per non dire un caratteraccio, insomma la disponibilità ad appenderli al muro, i giocatori di cui sopra.
Ora, scottati dal dietrofront di Ranieri (un giorno scopriremo cosa è realmente accaduto tra le 18, ora a cui la Figc racconta di aver ricevuto il “sì” che sembrava definivo, e le 24 di lunedì, quando arriva l’ormai celebre “non me la sento”) e dall’ambiguità di Pioli (con una mano faceva pervenire a via Allegri adesioni entusiastiche, con l’altra era già allo scambio di documenti con la Fiorentina), i vertici federali (c’è anche l’avvocato Giancarlo Viglione, l’uomo che ha ricevuto il primo whatsapp di Ranieri) impegnati a trovare un cristiano che alleni quella banda di dopolavoristi che è diventata la Nazionale, ci vanno con i piedi di piombo, e stanno procedendo con un colloquio alla volta. E a ieri sera, era ancora il turno di Gennaro Gattuso. Che ha il vantaggio – si fa per dire, una volta sarebbe stato motivo bastevole a rivolgersi altrove – rispetto alla concorrenza, di non avere squadra né di essersi impegnato con qualcuno, dunque il profilo ideale per accettare senza troppe storie e più o meno a qualunque cifra un contratto annuale (magari con un’opzione per il rinnovo vincolata a risultati eclatanti, ben più che la semplice – magari! – qualificazione al Mondiale). Dovranno incontrarsi e guardarsi negli occhi, i quattro (Gattuso, Gravina, Buffon, Viglione). E siccome in questo momento storico e con queste avversarie, non proprio – sia detto con il massimo rispetto, anche perché ci siamo già passati con la Macedonia del nord, e più indietro nel tempo con la celeberrima Corea – delle potenze calcistiche, non serve – anche qui, rispettosamente – un maestro di calcio come Guardiola, o di calcio e vita come Luis Enrique, la grinta di Gattuso potrebbe rivelarsi sufficiente a condurre la squadra al playoff (per il primo posto che garantirebbe la qualificazione diretta, non basterebbe nemmeno rivolgersi a un mago) e a metterla nelle condizioni, innanzitutto psicologiche, di vincerlo, vivaddio.
Fondamentale, sarà verificare che Gattuso abbia ancora dentro quel sacro fuoco che in campo lo guidava all’assalto degli avversari e alla protezione dei compagni (il danese Poulsen, quello che provocò a tal punto Totti da riceverne in cambio uno sputacchio, ancora ricorda cosa gli capitò per aver maltrattato Kakà), che le ultime tormentate stagioni – dal 2021, lasciata la Fiorentina prima di cominciare, rescisso con il Valencia, esonerato a Marsiglia, rescisso con l’Hajduk Spalato, dopo aver mancato abbastanza clamorosamente lo scudetto – non lo abbiano fiaccato nello spirito che un tempo fu guerriero. Voglia di rivalsa, ne avrà da vendere, ma il rischio che non trovi il modo giusto di trasmetterla alla squadra c’è, del resto è già successo. Dio non voglia, significherebbe addio al Mondiale, il terzo consecutivo, una roba che fa paura e orrore solo a nominarla.
Ora, a proposito di paura, concentriamoci su quella da incutere agli avversari. E se non è paura, chiamiamola pressione. Quante volte, nel calcio, nello sport, abbiamo commentato una grande impresa con queste parole: “Ha vinto prima di entrare in campo”. Non c’è bisogno di andare molto lontano, 31 maggio scorso, Monaco di Baviera, finale di Champions, il Psg di Luis Enrique che annichilisce l’Inter di Simone Inzaghi. Ricordate la prima scena della partita? Calcio d’inizio, i francesi spediscono la palla in fallo laterale, come il calcio di un rugbista, poi tutti si riversano nella metà campo nerazzurra, per rendere la pressione subito asfissiante. La partita è finita lì, o meglio non è mai cominciata. L’ha studiata Luis Enrique, ma l’avrebbe potuta escogitare benissimo José Mourinho.
Eccoci qui, è bastato nominarlo che già sentiamo il rumore dei nemici (ipse dixit). Ne ha tanti, lo Special one. Superiori, va detto, ai pur notevoli stuoli di vedove lasciate tra interisti e romanisti. In Italia, tutti quelli che non ha allenato. Soprattutto quelli che ha umiliato, in campo e fuori, anche con la sua arte retorica (vedremo più avanti). Gli arbitri, poi. Nelle gloriose stagioni nerazzurre e in quelle più sofferte ma non meno esaltanti sulla panchina della Roma, gli hanno riservato un trattamento particolare. In reazione, hanno fatto intendere, alle continue allusioni verbali di Mou e alla sistematica aggressività che la sua panchina riservava agli ufficiali di gara durante il match, ad ogni fischio controverso (soprattutto nei campionati romanisti).
Questo elemento, dei morti e feriti lasciati sul campo negli anni italiani, è fonte di perplessità nelle stanze federali. Possiamo affidare – ci si chiede – a un tecnico tanto divisivo la panchina in cui dovrebbero invece riconoscersi tutti gli italiani? Per come siamo messi, cara Figc, ci sembra onestamente una preoccupazione inutile. Anzi, vi ribaltiamo la domanda: proprio perché nella Nazionale di calcio, seppure ridotta ai minimi termini, continuano a riconoscersi milioni di persone, in Italia e all’estero, che oggi trovano conforto alternativo solo nel tennis bombastico di Jannik Sinner, possiamo non affidarla all’uomo che, più di ogni altro, ci garantirebbe lotta, sudore, sacrifici, rabbia quando occorre, indisponibilità ad arrendersi? E se il problema è il legame con la maglia azzurra o il senso di appartenenza, chiedete ai signori Friedkin, gli stessi che hanno persuaso Ranieri a dirvi di no, quanto hanno incassato grazie ai pienoni allo stadio che Mourinho gli ha garantito. Da allenare i romanisti ad allenare gli italiani, ne siamo convinti, non c’è tanta differenza.
E poi – come ha scritto Giorgio Gandola sulla Verità (giornale, sia ricordato per onestà, che da tempo marca a uomo Gravina con la stessa grinta del Gattuso che fu) – “almeno ci sarebbe da divertirsi”. Sottinteso: per noi giornalisti. Mou ogni volta che apre bocca regala tre o quattro titoli per altrettante aperture. Una manna. A elencarle tutte, le citazioni dal Mourinho pensiero, non basterebbe questa articolessa. Alcune, le più ficcanti, sono perfino entrate se non nel vocabolario italiano, sicuramente nel nostro linguaggio comune: “zeru tituli”, “prostituzione intellettuale”, il già citato “rumore dei nemici”, “non sono un pirla”, fino alla più vera, “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”, massima che potrebbe essere applicata a ogni cosa della vita. Mou le ha dispensate con generosità, e ogni volta ha fatto godere milioni di tifosi (i suoi), e incazzare tutti gli altri (al Fenerbahçe, va detto, ultimamente ha un tantino esagerato).
Alla fine di questa specie di appello, dobbiamo rivolgerci una domanda: siamo pronti ad accettare un allenatore straniero? Possibile che in Italia non sia possibile quello che, da decenni, tollerano altrove? Se Fabio Capello già nel lontano 2007 andò ad allenare l’Inghilterra, che oggi è guidata dal tedesco Tuchel (oddio, chissà fino a quando), se il migliore di noi, Carlo Ancelotti, è emigrato in Brasile a mettere un po’ d’ordine nella Seleçao, la Nazionale dei sogni per chiunque, perché noi non possiamo affidare la nostra Italia a Josè Mourinho, uno dei tecnici più vincenti e autorevoli nella storia del calcio? Del resto, lo abbiamo già fatto, quasi sessant’anni fa, quando, reduci dalla disastrosa campagna inglese, quella dell’eliminazione dalla Corea dell’odontotecnico Pak Doo-ik, ci affidammo ad Helenio Herrera, che aveva già portato la Grande Inter sul tetto d’Europa e del mondo (due volte). Era l’autunno del 1966. Gli italiani erano scioccati, serviva una terapia d’urto, c’era il rischio di non qualificarsi alla fase finale dell’Europeo del 1968 (allora suonava come una bestemmia), assegnata all’Italia, e allora via Fabbri dentro il Mago, scelto per affiancare Valcareggi, che un anno e mezzo dopo avrebbe portato gli azzurri a vincere il primo storico Europeo.
Herrera, prima di esordire sulla panchina azzurra, eliminò la Torpedo Mosca in Coppa dei Campioni. Al rientro dalla Russia, per smorzare le polemiche che la scelta di affidargli la ricostruzione dell’Italia aveva provocato, disse una frase passata alla storia: “L’Inter è la Nazionale”. Sessant’anni dopo, noi vorremmo gridare al mondo: “Mou è la Nazionale”. Abbiate coraggio.