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Il meritato calcio dell'asino a Spalletti, un presuntuoso narrativo del pallone

Maurizio Crippa

L'ex allenatore della nazionale viene liquidato con sarcasmo e disillusione dopo il disastro azzurro. Nel mirino anche Gravina, emblema di un sistema calcistico fermo e autoreferenziale

La domenica sportiva ci ha portato due sconfitte italiane. Quella immeritata, il soffio di tre match point sciupati, di un grande italiano, anche per le tasse che da uomo libero paga a Montecarlo, enorme campione e persona di eccellente educazione: Jannik Sinner. Che ha tenuto testa fino all’ultimo tie-break ad Alcaraz, ma soprattutto a quella oscena racaille di cafoni che è il pubblico di Parigi. L’altra è la sconfitta con uscita di scena grottesca e strameritata, tardiva in ogni caso, di un ciarliero allenatore, uno che ha una tale immaginifica e ingiustificata autostima di sé da aver detto, una volta: “Non non sono nato in Toscana, sono voluto nascere in Toscana. Sono uno che ama stare nella campagna, potare le piante, dare da mangiare agli animali”. E forse finalmente ora ci tornerà davvero, wannabe Cincinnato incompreso, a fare il vino in Toscana, e che paghi le tasse in Italia non fa di lui per forza un italiano migliore. Ovviamente c’è un terzo italiano che bazzica lo sport che esce più sconfitto dal weekend degli altri due, ma lui come Ercolino è sempre in piedi, ne parliamo poi. 


Ora è giusto rendere il calcio dell’asino a Luciano Spalletti. Non soltanto per il disastro dell’Europeo; non solo per essere uscito dalla Nation League, vinta poi da un signore di quarant’anni, mica la Parigi-Dakar. Non solo per le tre pere norvegesi ingoiate con la buccia. Ma perché si presentò a fare il cittì della Nazionale con la posa del salvatore, di quello che la sapeva lunga di come raddrizzare i ragazzi svogliati, gran prosopopea contadina a far intendere che il Mancio in fondo era, ma non mourinhamente, un pirla. Invece di pensare ad allenare si preoccupava di concionare sui giovani che guadagnano troppo e la PlayStation che lui la farebbe sequestrare; tranne poi convocare, ma perché?, il reduce da squalifica ludopatica Fagioli, e lasciare a casa il probo Locatelli. Scelta tecnica? No, perché ar cavaliere di Certaldo nun je devi cacà er cazzo. Aveva la difesa a tre pronta, ma giocò a quattro e disse che era colpa degli interisti. Poi poteva mettere Acerbi e invece ha detto “sapete quanti anni ha?”, con l’arietta di uno che crede di essere un aforista e invece è solo uno che apre le parentesi e non riesce mai a chiuderle. Stavolta non aveva un centrale, ma ha giocato a tre. Ma è colpa un’altra volta di Acerbi. 


Del resto Spalletti è uno che dice: “Nelle mie scelte farò calciatori contenti e scontenti ma sarà sempre per il bene della Nazionale”. S’è visto. Ora poteva tacere due giorni e andarsene dopo la partita con la Moldavia (ieri sera), ma voleva far sapere che lui non è ipocrita. Gli vorremmo far sapere che l’ipocrisia, a volte, è l’omaggio che l’intelligenza rende al vizio di forma. Del resto è uno famoso in carriera per aver litigato e scaricato i flop sui capitani che gli facevano ombra. Vuoi che rinunciasse ad alzarsi dalla conferenza stampa per lasciar cadere come una fatidica risposta la domanda: “Si sente tradito?”. Se ne va insalutato ospite, col suo palmares fatto di due campionati vinti in Russia con la squadra di Gazprom e di Putin, che li vinceva pure Prigozhin, e uno con il Napoli ma litigato col capriccioso ADL, che non gli diede abbastanza merito. 


Anyway, sopra di lui c’è chi lo ha scelto, l’uomo che si avvia alla terza eliminazione italiana di fila dal Mondiale, o forse la eviterà per il rotto dei calzoni, Gabriele Gravina. L’uomo che ha voluto Spalletti, e vabbè. Ma poi ha avuto il coraggio di confermarlo dopo l’Europeo, e non si è dimesso neppure lui. E che non ha avuto il coraggio di cacciarlo venerdì scorso, ha preso tempo, poi gli ha detto: vai avanti tu a dirlo e non s’è fatto più vedere. Il punto più basso della gestione e comunicazione della Figc dai tempi dell’invenzione del calcio fiorentino. E dire che per Gian Piero Ventura, nel  2018, chiesero ed ottennero il rogo. Poi arrivò lui e disse che sarebbe stata una rivoluzione, ha azzeccato che i due gemelli del gol e della vita Mancini & Vialli trionfassero a Wembley, poi riuscì a rovinare il rovinabile col Mancio. E adesso è pronto a non andarsene lo stesso, tanto è appena stato confermato ai vertici della Federazione con un plebiscito à la Orbán. Perché poi il gioco del calcio è semplice, se non vuoi scoperchiare tutto quello che non va là sotto – dai club minori alle giovanili ai centri d’eccellenza federali mai nati (avevano preso per i fondelli persino Roby Baggio, quindici anni fa), la regola è semplice: tieni lì il garante del coperchio sul pentolone, e tutto andrà avanti. Fino alla prossima Certaldo. 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"