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l'indagine
Quanto piace agli americani spendere e spandere nella serie A
Fondi d’investimento e cowboy solitari. È il grande peso specifico dei capitali a stelle e strisce nello sport più amato dagli italiani. Ma anche i patron vecchio stile sopravvivono
La partita all’ultimo punto tra l’Internazionale Milano e il Napoli è anche la sfida tra due modelli e tra due “patron”. Al nord c’è la squadra che, spenti i riflettori sulle famiglie del vecchio capitalismo, s’è affidata a improbabili uomini d’affari e ai padrini della finanza; al sud c’è l’ultimo impresario goldoniano che s’impone anche sull’interprete più sapiente e vincente. Il calcio non sarà il gioco più bello del mondo, certo è lo specchio di tutte le brame. Lo è sempre stato, da quando il cumenda lombardo si comprava la squadretta o Benito Mussolini lanciava la Roma (quella del pallone, non quella eterna). Ma nel momento in cui l’Europa ha aperto le frontiere (la sentenza Bosman del 1995 ha fatto da spartiacque) è cominciato il Grande gioco. Sceicchi, oligarchi russi, mandarini cinesi, miliardari americani, fondi d’investimento hanno fiutato un tesoro, ma per lo più hanno trovato montagne di debiti. Al turbinio dei calciatori che si spostano di qua e di là, agli appetiti dei procuratori che li guidano a bacchetta si accompagna il mordi e fuggi dei capitali e delle proprietà. L’Inghilterra ha fatto da apripista, ma l’Italia non è rimasta indietro. Su venti squadre di serie A, ben undici sono di proprietà estera. Nove di esse sono americane, per lo più statunitensi, una canadese e una a cavallo dei grandi laghi. Altro che esotiche avventure, il campionato italiano è una colonia yankee, il football è diventato soccer, attraverso società finanziarie o con l’ingresso di cavalieri solitari. E’ vero che le multinazionali a stelle e strisce sono al primo posto anche tra tutte le imprese estere in Italia (il 20 per cento, poco più delle francesi), tuttavia non c’è paragone con il peso specifico che hanno in serie A.
Ecco qua il quadro: l’Atalanta è di Bain Capital (Usa); il Bologna di Joey Saputo (Canada); il Como di Michael Bambang Hartono (Indonesia); la Fiorentina di Rocco Commisso (Usa); il Genoa di Dan Sucu (Romania); l’Inter del fondo Oaktree (Usa-Canada); il Milan di RedBird (Usa); il Parma di Kyle J. Krause; la Roma di Dan Friedkin, il Venezia di Duncan Niederauer, il Verona di Presidio Investors (tutti uomini d’affari e società statunitensi).
Su venti squadre di serie A, undici sono di proprietà estera. Sette di esse sono statunitensi, una canadese e una a cavallo dei grandi laghi
Le sorprese non finiscono qui. L’ultima novità è che sono scesi in campo i nuovi, nuovissimi ricchi, i cripto-miliardari. La Tether guidata da Paolo Ardoino ha acquistato il 10 per cento della Juventus. “Siamo orgogliosi di diventare un azionista significativo della Juventus, un club con una storia, un marchio e una base di fan che non è secondo a nessuno – ha dichiarato Ardoino – Questo investimento non è solo finanziario, è un impegno per l’innovazione e la collaborazione a lungo termine”. Tether, inoltre, “come ulteriore dimostrazione del suo impegno a lungo termine”, si dice anche aperta a “partecipare a eventuali future iniezioni di capitale”. John Elkann ha trovato il socio che può alleggerire il peso che grava sulle sue spalle.
Sono scesi in campo anche i nuovi ricchi, i cripto-miliardari. La Tether guidata da Paolo Ardoino ha acquistato il 10 per cento della Juventus
I cripto-magnati
Quando diamo un’occhiata alla proprietà delle squadre di serie A, insomma, siamo colpiti dalla netta prevalenza americana, poi arrivano i capitali dall’Asia. Anche questo è il segno di una nuova fase, come lo sono stati gli sceicchi, gli oligarchi e i fondi d’investimento. E’ la nuova maschera del servitore di due padroni: la ricchezza e lo spettacolo. Con Tether si entra nel misterioso regno dell’alta tecnologia informatica, nel favoloso labirinto delle criptovalute. Il fondatore Giancarlo Devasini, con un patrimonio di 22 miliardi di euro e qualche milione di spiccioli, è il terzo uomo più ricco d’Italia, una figura per molti versi contraddittoria, un chirurgo plastico che ha rinnegato la sua professione per buttarsi negli affari, con alti (pochi) e bassi (molti), finché non arriva l’illuminazione, la moneta “immaginaria” sviluppata tecnicamente da Ardoino. E’ quasi un passaggio d’epoca dal capitalismo del Novecento a quello del Duemila. Se Devasini è il numero tre e Ardoino il numero cinque, al secondo posto dei ricconi italiani, subito dopo Giovanni Ferrero, c’è Andrea Pignataro con 34 miliardi. Matematico bolognese, dopo la laurea si mette in finanza alla Salomon brothers, poi fonda a Londra una società di software e cresce raccogliendo ed elaborando dati, il petrolio dell’ultima rivoluzione industriale, così come le criptovalute, che di dati vivono e muoiono, vogliono diventare l’oro del XXI secolo.
Elkann vede nell’innovazione tecnologica la frontiera dove portare casa Agnelli e forse risolvere la difficile quadratura dei conti juventini
Il calcio veniva considerato la versione sportiva di un gioco di guerra, con le nazioni che si sfidano negli stadi anziché nelle trincee, poi si è legato al gioco d’azzardo, adesso a un altro gioco ancor più sofisticato, quello dell’innovazione. Non abbiamo ancora capito come, ma siano convinti che ce lo spiegherà lo stesso Ardoino, o John Elkann, il quale proprio nell’innovazione tecnologica vede la frontiera dove portare la corazzata finanziaria di casa Agnelli e forse risolvere la difficile quadratura dei conti juventini: il ritorno all’utile nel primo semestre 2024/2025 dello scorso anno (16,87 milioni rispetto alla perdita precedente di 95 milioni) non nasconde un debito di 411 milioni secondo l’Esma, il guardiano finanziario europeo.
Da San Siro a Wall Street
Poiché Milano si vanta (con qualche buona ragione) di essere la più moderna città italiana, il salto dalle imprese di famiglia alle corporation globali non poteva che avere a Milano il suo più eclatante sviluppo. L’ingresso dei fondi di investimento sembrava una ventata d’aria fresca, o meglio di denaro fresco e di fresca modernità anche nel football: via le ragnatele lasciate da famiglie esangui e senza fondi, arriva il capitale vero, arriva la globalizzazione. Ma quando si tratta di calcio tutto si fa confuso. L’addio di Massimo Moratti all’Inter è stato mesto, quello di Silvio Berlusconi al Milan a dir poco pasticciato. I Moratti hanno fatto la storia dell’Inter, Berlusconi ha fatto scintille. Angelo Moratti, figlio di un farmacista, si era gettato nell’oro nero alla fine degli anni 20 del secolo scorso per poi diventare, dopo la Seconda guerra mondiale, il primo petroliere privato. Nel 1955 prende l’Internazionale Milano e la porta al vertice con Helenio Herrera allenatore e un bouquet di gran campioni (Suárez, Jair, Facchetti, Mazzola e tutti gli altri). Vince in Italia e in Europa, poi lascia tutto ai figli: a Gianmarco gli affari petroliferi, a Massimo, di nove anni più giovane, il calcio. Quest’ultimo nel 1995 riacquista l’Inter che il padre nel 1958 aveva passato a Ivanoe Fraizzoli, il quale l’aveva venduta nel 1984 a Ernesto Pellegrini. Risalire la china non è facile, a Milano nel frattempo regnano i rossoneri di Berlusconi. Massimo Moratti ci spende buona parte del patrimonio, vince, con José Mourinho ottiene un triplete (scudetto, Coppa Italia, Coppa dei campioni nella stagione 2009-2010), ma rischia la rovina. Nel 2013 getta la spugna, anche se resterà sempre legato alla sua Inter, talvolta in modo persino commovente.
L’addio di Moratti all’Inter è stato mesto e sono cominciati i disastri. Prima gli indonesiani, poi i cinesi, poi l’americana Oaktree. Durerà?
La soluzione è disastrosa. Prima arrivano gli indonesiani: Erick Thohir, imprenditore e uomo d’affari, insieme a Rosan Roeslani e Handy Soetedjo; non durano ed ecco spuntare il cinese Zhang Jindong con la Suning Holdings, una conglomerata che fa un po’ di tutto; regge anch’essa appena tre anni e nel 2019 arriva LionRock, un fondo d’investimento basato a Hong Kong. Infine, lo scorso anno appare la “quercia” a stelle e strisce: la Oaktree Capital Management, fondata nel 1995, specializzata in azioni di società in serie difficoltà. Fondata da Howard Marks, finanziere con la passione della scrittura. Il suo guru è Michael Milken, che fece una fortuna con i “titoli spazzatura” e poi finì in prigione. Per Marks lo sport è uno sfizio e nel 2019 vende due terzi della società al più importante fondo d’investimento canadese, uno dei maggiori al mondo: Brookfield, fondato nel 1899 e oggi attivo soprattutto nelle infrastrutture e nelle energie rinnovabili. Oaktree continua con le società in difficoltà e l’Inter è una di queste. I debiti complessivi ammontano a 734 milioni di euro (più di quanti ne abbia il club parigino Psg) con un fatturato di 473 milioni e perdite di 36 milioni, meno degli 80 milioni con i quali si era chiuso il bilancio precedente. Tutto lascia prevedere che nemmeno quella attuale sia una gestione non diciamo permanente, ma di lungo periodo. Lo stesso vale per il Milan.
Silvio Berlusconi aveva ripescato lo storico club dopo la caduta in serie B nel 1980, con lo scandalo del Totonero. Tornato in A un anno dopo, ha sfiorato il completo fallimento finché nel 1986 non arriva il Cavaliere che apre l’epoca d’oro, con Arrigo Sacchi in panchina e in campo il formidabile trio olandese Gullit, Van Basten, Rijkaard. Nel 2017 un Berlusconi sulla via del tramonto si decide a vendere il Milan, spinto, si disse, dai figli Marina e Pier Silvio, preoccupati per un indebitamento arrivato a 220 milioni di euro. Si fa avanti l’uomo d’affari cinese Han Li, il quale rappresenta un gruppo di investitori disposti a pagare 740 milioni di euro, debiti compresi. Il club era reduce da un quinquennio senza vittorie e aveva chiuso l’anno precedente con una perdita di circa 90 milioni. Il frontman è Li Yonghong, figura oscura persino in Cina, a metà tra millantatore e imbroglione. Nell’aprile 2017 si scopre che è un uomo di paglia: il fondo americano Elliott gli ha prestato 303 milioni di euro per completare l’acquisizione e adesso si trova in pancia il Milan. Il 10 luglio 2018, Elliott comunica di aver assunto il controllo del club rossonero tramite Project RedBlack, una società-veicolo lussemburghese.
Elliott è una società importante fondata da Paul Singer, figlio di un farmacista di Manhattan. Dopo la laurea a Harvard e un lungo apprendistato alla banca d’affari Donaldson, Lufkin & Jenrette, nel 1977 crea l’hedge fund che si specializza nello speculare sui debiti degli stati (Perù, Argentina, Congo) e delle imprese, così diventa famoso per condurre battaglie legali per conto degli azionisti di minoranza. Singer scuote i vertici di colossi come Twa, Enron, Chrysler, WorldCom, e in Italia di Telecom, dove si mette di punta soprattutto contro Vivendi di Vincent Bolloré. Entrato in Mediaset, se la prende con la Fininvest di Berlusconi. Mentre nell’Ansaldo Sts si batte contro la giapponese Hitachi che l’ha comprata da Finmeccanica.
In Italia Elliott si appoggia a Paolo Scaroni, il quale diventa presidente del Milan. La poltrona gli sta particolarmente a cuore: non la molla nemmeno quando nel 2022 Singer lascia il Milan al fondo d’investimento americano RedBird e incassa la cifra record per il calcio italiano di 1,2 miliardi di euro. Anche ora che è stato nominato dal governo Meloni presidente dell’Enel, Scaroni resta presidente del Milan e, dicono i maligni, pensa più al calcio che all’elettricità. Il club rossonero a questo punto è nelle mani di Gerry Cardinale, nonni italiani, studi a Harvard e nella britannica Oxford, una carriera da Goldman Sachs. Nel 2014 si mette in proprio e il suo “Uccello rosso” investe forte anche nello sport attraverso il gruppo Fenway o direttamente: il Liverpool, il Tolosa e il Milan nel calcio, i Red Sox di Boston e una partecipazione nei New York Yankees nel baseball, i Penguins di Pittsburgh (hockey su ghiaccio) e la Formula 1 (la Alpine insieme all’attore Dwayne Johnson). RedBird è un volatile (sia pur finanziario), ma la forte passione sportiva fa pensare che Cardinale possa essere il patron stabile a lungo cercato: “Voglio il Milan al vertice del calcio europeo e mondiale”, ha proclamato; finora è rimasto deluso.
L’Atalanta, ormai già in Champions League, da due anni non è più nelle mani di Antonio Percassi, ex calciatore atalantino negli anni 70, giudicato un arcigno difensore, che se la prende nel 1990 dopo la morte del patron Cesare Bortolotti. Percassi colloca il club in una finanziaria chiamata (ovviamente) La Dea, punta molto a creare un vero e proprio brand, scommette sul vivaio giovanile e sul lancio di talenti rimasti spesso nell’ombra. In campo sportivo i risultati non mancano, ma per fare il salto ci vogliono molti capitali. Nel febbraio del 2022 arriva Stephen Pagliuca, azionista dei Boston Celtics, eccellenza nella Nba (sono i campioni in carica), e tra i top manager di Bain Capital, la compagnia nata nel 1984 dalla Bain & Company, una delle più blasonate società di consulenza. Il co-fondatore Mitt Romney, mormone, senatore repubblicano, governatore del Massachusetts, ha puntato alla Casa Bianca ed è stato sconfitto nel 2012 da Barack Obama. Pagliuca, invece, è sempre stato vicino ai Kennedy. Ora possiede il 55 per cento de La Dea, il resto a Percassi che rimane presidente, il figlio Luca è amministratore delegato, mentre il co-chairman Pagliuca ha piazzato il proprio rampollo in consiglio di amministrazione.
Il Verona sta seguendo un percorso parallelo. Il club a gennaio è stato acquistato dal fondo texano Presidio che investe in finanza, tecnologia, salute, media. L’Hellas, fondata ai primi del ’900, quarantacinque anni fa riesce a vincere lo scudetto, un canto del cigno perché nel 1990 la società viene dichiarata fallita. Per due decenni passa di mano in mano finché nel 2021 non arriva Maurizio Setti, eclettico imprenditore di Carpi, rovinato dal Covid, ma potremmo dire dal calcio. Anche lui. Dopo la cessione resta consulente, però la presidenza va a Italo Zanzi, avvocato newyorchese per quattro anni amministratore della Roma nei tumultuosi anni di James Pallotta. E così introduciamo un’altra categoria di patron.
I soccer boys
Yankee go home: il grido di battaglia della sinistra radicale ai tempi della guerra in Vietnam risuona ora allo stadio Olimpico sugli spalti della curva sud: i tifosi giallorossi non ne possono più dei proprietari americani. Prima James Pallotta che forse ne capisce di basket (ha investito nei Boston Celtics e nei Los Angeles Lakers), ma il soccer non è il suo pane. Aveva comprato la Roma dall’Unicredit che l’aveva ereditata dalla Banca di Roma, finanziatrice della famiglia Sensi, quella degli ultimi successi (uno scudetto, due Coppe Italia e due Supercoppe), l’ha portata in una semifinale della Champions League, non ha risanato i conti. Nel 2020 arriva Dan Friedkin, che da Houston in Texas guida una catena di rivenditori della Toyota. L’inizio è folgorante con José Mourinho che riempie l’Olimpico, ma vince solo una Conference League. Poi è un vaudeville: gente che va, gente che viene, finché il vecchio saggio Claudio Ranieri rimette in sesto la squadra, si lancia in una eroica rimonta, ma difficilmente potrà assicurarsi un posto in Champions League. Non ha fatto molto meglio, con la Fiorentina, Rocco Commisso da Gioiosa Ionica che ha fatto i soldi con una società di tv via cavo ed è azionista di maggioranza dei New York Cosmos, dove ha giocato persino Pelé. Sanguigno e simpatico, ha costruito il Viola Park, mega struttura sportiva, soprattutto calcistica, costata 120 milioni di euro. La squadra viola è stata una grande promessa, allenata da Vincenzo Italiano ha mancato due volte, per un soffio, il successo in Conference League. Ora è al nono posto. Potrebbe fare di più.
Dopo Mourinho, la Roma di Friedkin è un vaudeville: gente che va, gente che viene, finché Ranieri non rimette in sesto la squadra
Italiano, invece, passato quest’anno al Bologna, è riuscito a soffiare la Coppa Italia a un Milan sempre sull’orlo di una crisi di nervi. La società bolognese è da dieci anni in mani americane, canadesi esattamente: Giuseppe Joey Saputo che guida una grande impresa di latticini nel Quebec, appassionato di calcio, possiede anche la squadra di Montréal. Il Bologna sembra destinato a grandi imprese. Più modesti i risultati del Parma controllato da Kyle Krause, che negli Usa possiede una catena di minimarket e in Italia delle vigne nelle Langhe. La squadra ha tre punti più del Venezia acquistato dieci anni fa dal finanziere Duncan Leigh Niederauer, newyorchese, brillante carriera alla Goldman Sachs, entrato nel Venezia insieme ad altri soci, americani e italiani (come Gianni Mion, già big boss del gruppo Benetton) e con uno stretto rapporto con il sindaco veneziano Luigi Brugnaro. Grandi affari all’orizzonte, a cominciare dallo stadio, frutto agognato e spesso proibito di ogni investimento nel calcio.
Tra patron vecchi e nuovi
Se il Napoli batterà in volata l’Inter e conquisterà lo scudetto, sarà la rivincita del vecchio patron in un calcio ancora alla ricerca di un nuovo modello. Di quello tradizionale proprio Aurelio De Laurentiis (attenti alle due i, si rischia la querela) è oggi l’esponente numero uno. Romano, ma figlio di Luigi da Torre Annunziata che con il fratello Dino è stato protagonista del neorealismo cinematografico e della commedia all’italiana, ha unito ai film la passione per il calcio, o meglio per il Napoli, accanto al quale ha poi collocato il Bari affidandolo al figlio Luigi. Se l’équipe partenopea lo ha fatto sgolare, ma anche sognare, quella pugliese è stata una delusione (quest’anno non ha centrato nemmeno i play off di serie B). La gestione De Laurentiis è stata croce e delizia per i tifosi napoletani e per gli allenatori con i quali il patron ha regolarmente litigato. Luciano Spalletti ha fatto vincere il campionato, poi se n’è andato; potrebbe succedere anche con Antonio Conte, sia che vinca sia che perda lo scudetto al fotofinish. De Laurentiis è sotto attacco anche per la sua compravendita di calciatori, a cominciare da campioni come Osimhen o Kvaratskhelia. E’ indagato per falso in bilancio per l’acquisto proprio di Osimhen dal Lille e di Manolas dalla Roma nel 2019: con il gioco di supervalutazioni e plusvalenze avrebbe tenuto a galla per vent’anni i conti della squadra portata dalla serie C al primato nel 2023, ben 31 anni dopo Maradona. Nemmeno se riuscirà a prevalere anche quest’anno metterà a tacere tutti i suoi avversari, compresa la tifoseria partenopea che gli ha sempre rovesciato contro una miscela di odio e amore.
Nemmeno se riuscirà a prevalere anche quest’anno, De Laurentiis metterà a tacere tutti i suoi avversari, compresa la tifoseria partenopea
Claudio Lotito, invece, rappresenta un astuto esponente di certa romanità, a volte folkloristica, con le sue dormite sui banchi del Senato e le sue sfuriate al telefono ad altissima voce che facevano scappare i clienti dal suo ristorante preferito: la Taverna Flavia che ora non c’è più. Ha cominciato dal basso e non in senso figurato. Romano, figlio di un carabiniere, dopo la laurea in pedagogia alla Sapienza si butta negli affari: immobili ai quali lo introduce il matrimonio con Cristina Mezzaroma, nipote del costruttore Pietro, pulizie (fonda ben tre imprese), vigilanza privata, catering. Se si vuole un servizio in ufficio, in albergo, in un ministero è a Lotito che di riffa o di raffa ci si rivolge. La politica gli serve, visto che vive di appalti con la pubblica amministrazione. Diventa berlusconiano, nel 2018 viene eletto per la prima volta senatore di Forza Italia. Nel 2005 prende la Lazio in bancarotta e viene coinvolto subito negli scandali di Calciopoli. I magistrati cominciano a metterlo nel mirino e non lo abbandoneranno mai, tra processi, squalifiche sportive, multe, assoluzioni, prescrizioni, è un habitué del palazzo di giustizia. Con lui la Lazio ottiene risultati importanti (tre Coppe Italia e tre Supercoppe), ma non tornerà più agli infausti fasti di Sergio Cragnotti. Lotito nel 2011 compra anche la Salernitana insieme al cognato Mezzaroma, dieci anni dopo la vende a Danilo Iervolino, fondatore di Pegaso, l’università telematica.
A cavallo tra tradizione e innovazione si colloca Urbano Cairo, formatosi nel mondo mediatico del quale lo sport è parente stretto o forse addirittura fratello siamese. Ha preso il Torino nel 2005 e lo ha gestito alla sua maniera, con grande attenzione a non buttare denaro. I tifosi lo accusano di avere il braccino troppo corto per salire al vertice della serie A (non parliamo delle competizioni europee), manifestano in piazza e chiedono che molli la squadra prima che sia troppo tardi, prima che si presenti addirittura lo spettro della serie B. Chi è tentato di vendere è Giampaolo Pozzo, un altro esempio virtuoso del modello patron, imprenditore del legno (ha ceduto la sua azienda alla Bosch) che guida l’Udinese dal 1986 e si distingue per un modello che fa del pareggio di bilancio il proprio mantra. La chiave è lo scouting: trovare giovani di talento in giro per il mondo (senza trascurare qualche gloria stagionata in cerca di riscatto), sottoporli al difficile apprendistato della serie A, valorizzarli, poi venderli ad alto prezzo. Non è un’esclusiva, ma pochi lo fanno bene come lui. La squadra friulana aveva fatto sognare nel 1983 con Arthur Antunes Coimbra detto Zico, uno dei migliori fantasisti brasiliani, comprato per 4 miliardi di lire dall’allora presidente Lamberto Mazza. Adesso anche per l’Udinese si prepara un futuro da fondo? Si parla di una cordata guidata da 890 Fifth Avenue Partners. La soluzione potrebbe essere simile a quella dell’Atalanta, con Pozzo che resta, ma in minoranza. Non è riuscito invece il miracolo Monza; scomparso Berlusconi, si è dissolto in sogni troppo grandi anche Adriano Galliani, il quale da fedele esecutore non è mai diventato un visionario costruttore. La squadra che doveva prendere la fiaccola del Milan berlusconiano scivola mesta in serie B. Potrebbe rilanciarla Mario Gabelli, italoamericano che ha cominciato lustrando le scarpe e ora possiede il fondo Gamco. S’aggiunge anche lui ai nuovi patron venuti da oltre frontiera come i fratelli Hartono, i più ricchi dell’Indonesia che stanno rilanciando il Como (guidano la Djarum, principale azienda di sigarette nell’isola di Giava). Oppure Dan Sucu, imprenditore rumeno (mobili e arredamento) che possiede il Genoa oltre al Rapid di Bucarest.
Zero tituli
La nostra rassegna non dirada il mistero: perché tutti continuano a comprare squadre di calcio anche se è certo che finiranno per rimetterci i quattrini se non proprio distruggere il patrimonio? L’indebitamento complessivo ammontava l’anno scorso a 4,6 miliardi di euro. I debiti verso gli istituti di previdenza sono cresciuti del 24 per cento, quelli verso altre società del 12 per cento, gli altri debiti sono saliti del 27 per cento. In cima a tutte c’è l’Inter (734,8 milioni di euro), seguono Juventus (639 milioni) e Roma (636 milioni), poi Milan (324 milioni) seguito da Lazio, Genoa, Napoli e Sassuolo, tutte con oltre 200 milioni di euro di debiti. La Fiorentina è una delle società più virtuose (solo 65 milioni di debiti). Il Napoli, a fronte di un indebitamento da 242 milioni, ha una liquidità in cassa pari a 210 milioni di euro. De Laurentiis potrebbe ancora spendere. Se poi vincesse il campionato sarebbe in grado di costruire uno squadrone tipo Real Madrid in mano a un’altra personalità fumantina come il costruttore Florentino Pérez. Alla faccia dei fondi di investimento e dei cowboy del calcio. Ma lo farà mai davvero? Quello italiano non è più da tempo il “campionato più bello del mondo”. Il calcio è un grande business con grandi spese e scarsi profitti. Certo, non c’è solo il campo, c’è anche lo stadio, e in Italia questo versante degli affari è ancora poco sfruttato. Di qui la corsa a costruire impianti, frenata finora da tanti ostacoli, dai costi dei terreni urbani ai permessi necessari. Tuttavia, la Juventus che uno stadio ce l’ha non sembra averne ricavato grandi profitti. La modernizzazione, l’arrivo dei dollaroni, tutto quello che ci è stato raccontato ha davvero fatto compiere un salto di qualità? Sono domande retoriche e la più facile risposta è no. Eppure non basta il calcolo razionale, non basta ragionare sull’utile. Vuoi vedere che ancora una volta la passione ha una ragione che la ragione non conosce? Speriamo che sia così.



Il Foglio sportivo