La maglia rosa del Giro d'Italia, Tadej Pogacar (foto LaPresse)

Il Foglio sportivo

Il racconto rosa di Tadej Pogacar al Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

La trama semplice dello sloveno è quanto di meglio potesse capitare alla corsa a tappe italiana

In un’epoca nella quale polizieschi e noir non sono più parolacce letterarie e nessuno più si vergogna di farsi beccare in pubblico a leggere quella “carta sprecata insozzata di inutilità”, come li definì, con parecchio astio e spirito snob, il filosofo Michail Michajlovic Bachtin, e le serie tv abbondano infarcite di trame complicate e sviluppi imprevedibili, ci si sta forse scordando che possono esistere storie piacevoli, capaci pure di appassionare, anche senza colpi di scena o stupefacenti accadimenti imprevisti. 

Sono tempi difficili, questi, per racconti semplici e dalla trama lineare. Il vorace desiderio di essere stupiti per forza ci trasforma in noia tutto ciò che si conclude nella maniera in cui avevamo pensato potesse concludersi. 

Va così con la letteratura, con il cinema o con le serie tv, va così anche quando c’è di mezzo lo sport. 

Quando i corridori sono partiti da Venaria Reale tre settimane fa per correre il Giro d’Italia, c’era la certezza quasi assoluta che Tadej Pogacar avrebbe vestito presto la maglia rosa e che ci sarebbe salito lui di rosa vestito sul gradino più alto del podio di Roma, domani, domenica 26 maggio. E questo perché di corridori del rango di Tadej Pogacar sulle tre settimane al via del Giro d’Italia non ce ne erano. Anche perché al momento di corridori del rango di Tadej Pogacar ce ne è uno – Jonas Vingegaard –, forse due – Remco Evenepoel, se si ragiona sul futuro, più o meno immediato – ed erano a casa a rimettersi a posto le ossa e a contare le ferite dopo la caduta al Giro dei Paesi Baschi. 

È andato tutto come era prevedibile. Tadej Pogacar ha indossato la maglia rosa presto e se l’è tenuta. E in tre settimane di corsa ha dimostrato ampiamente di non avere nessun antagonista reale in gruppo

Tadej Pogacar è semplicemente il più forte e al Giro d’Italia ha dimostrato di esserlo su ogni salita, strappo, condizione. 

Quella di Tadej Pogacar al Giro d’Italia è stato un racconto semplice e dalla trama lineare, non per questo non appassionante. Anzi. 

Questo Giro d’Italia è stato piacevole, gradevolissimo, nonostante il protagonista principale di questa storia di tre settimane non avesse un antagonista. 

Poco male. 

Era il novembre del 1979 quando il poeta Giorgio Caproni era andato alla Sapienza per parlare di poesia. Non ci voleva andare, d’altra parte le poesie si scrivono e tutto il resto è superfluo, ma il suo amico professore aveva insistito a tal punto che alla fine si era arreso. Si era seduto sulla sedia e aveva parlato per una buona mezz’ora di poesia, di utilizzo della lingua, di realtà e di immaginazione. Poi aveva lasciato spazio ai ragazzi che aveva davanti, alle loro domande. 

Uno di loro, del tutto disinteressato alla poesia, gli chiese consigli su cosa andava e non andava fatto quando si scrivevano racconti o romanzi. “Il professore mi guardò malissimo, quasi a volermi dire: ‘Abbiamo in aula un eccezionale poeta e tu gli domandi di come si scrive un racconto?’. Il professore era pronto a intervenire, forse per chiedergli scusa per la domanda, quando Giorgio Caproni sorridendo rispose che era da un po’ che non scriveva un racconto ed era la cosa che gli mancava di più”, racconta al Foglio sportivo quel ragazzo ora uomo, Antonello Siepi, da oltre trent’anni in America a scrivere per la televisione. 

Il poeta disse a lui e a tutti gli altri studenti che non c’era un modo migliore degli altri per scrivere un racconto, lui almeno non l’aveva mai trovato, ma che non c’è racconto o romanzo buono senza un protagonista e una storia. E non c’è bisogno di una trama complicata quando c’è una buona idea di storia, e non c’è bisogno di tante voci, personaggi antagonisti, quando c’è un buon protagonista principale. 

“Fu allora che il poeta, per spiegare bene tutto se ne uscì con qualcosa che nessuno di noi si sarebbe mai immaginato: ‘ Quando correva Eddy Merckx, Eddy Merckx era il protagonista e bastava lui per rendere speciale una corsa, non gli servivano neppure grandi avversari, anche perché di grandi come lui non ce ne erano’. Non ci poteva essere spiegazione migliore”. 

Giorgio Caproni era un grande amante della bicicletta, in un’intervista alla Stampa raccontò che gli sarebbe piaciuto aver fatto l’inviato al Tour de France, perché “il ciclismo è un ottimo spunto per raccontare e il Tour de France era ed è il miglior libro ciclistico”. 

Tadej Pogacar aveva sempre preferito il Tour de France al Giro d’Italia, va così, di solito: i più forti, cercano sempre il palcoscenico migliore per esibirsi sui pedali e la Grande Boucle è ancora, e sempre più per distacco, il migliore e più seguito proscenio al mondo. 

Al Tour ci vanno sempre i migliori, al Giro molto meno. Queste settimane di pedalate italiane dello sloveno, è quanto di meglio sia capitato al Giro d’Italia negli ultimi anni. Molto di più delle lotte all’ultimo secondo e con pochi scatti a cui il Giro ci aveva abituato nelle ultimissime edizioni. Il suo pedalare leggero verso Livigno, accompagnato dal vuoto della solitudine del più forte, su un fondale macchiato dalla neve e con in lontananza le sagome delle vette alpine è l’opportunità che questa corsa cercava per dimostrare a tutti, al mondo, quanto possa essere ancora affascinante nel suo rosa sempre più shocking e spiazzante. 

Mancava al Giro uno come Pogacar, mancava al Giro uno che vale la pena vederlo pedalare indipendentemente da quello che ha attorno. Perché in fondo il ciclismo non è altro che una storia semplice, una trama lineare di uomini e donne che muovono i pedali di un mezzo che non è mai cambiato davvero, capace però di cambiare ogni volta racconto, scenari, protagonisti, all’inseguimento dell’unica cosa che conta davvero: la solitudine assoluta del più forte in quei luoghi dove la solitudine non è una condizione dalla quale si cerca di fuggire, ma alla quale spesso si va incontro coscientemente. 

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