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verso la finale di Coppa Italia

Marten de Roon è l'estensione del pensiero gasperiniano

Marco Gaetani

Il centrocampista dell'Atalanta è il secondo giocatore per partite giocate in nerazzurro nella storia del club, un faticatore che ormai, a forza di star lì, è diventato più bergamasco dei bergamaschi

Quando il ciclo gasperiniano vedeva la luce, Marten de Roon era lontano da Bergamo, in quell’esilio annuale in Premier League, sacrificato sull’altare di un bilancio ancora non scintillante: i 10 milioni (più 4 di bonus) offerti dal Middlesbrough per il centrocampista arrivato soltanto un anno prima per 1,5 milioni si erano rivelati troppo ghiotti per essere rifiutati. Ma a volte bisogna allontanarsi per scoprire quanto intenso può essere un amore. Era uno dei pupilli di Giovanni Sartori, architetto di quell’Atalanta e oggi artefice del miracolo Bologna: lo aveva marcato a uomo per sei mesi ai tempi dell’Heerenveen prima di portarlo a Bergamo e alla fine, nonostante la cessione inglese, aveva deciso di farlo tornare in quella che oggi, sette anni dopo, possiamo davvero definire casa.

Sono cambiati tanti volti nel corso del tempo: se andiamo a riprendere la prima formazione europea dell’Atalanta di Gasperini (3-0 all’Everton, gol di Masiello, Papu Gomez e Cristante), quello di de Roon è uno dei pochi a non essersi mosso, insieme ad Hateboer, Toloi e Palomino. Ma se gli altri hanno via via perso importanza, l’olandese ne ha acquisita sempre di più nel tempo. Quasi non conosce turnover, nonostante gli anni che passano. De Roon che spezza il gioco e lo fa ripartire, che agisce da mediano e da difensore centrale come se nulla fosse, che scherza sui social appena l’occasione glielo consente. In campo, ormai, è l’estensione del pensiero gasperiniano, la figura capace di trasmettere ai compagni la necessità di accelerare o rifiatare. Aveva parlato prima di Atalanta-Olympique Marsiglia, facendo capire a tutti quale fosse l’atmosfera: “Questa sarà la partita più bella e importante della mia carriera: il pubblico ci spingerà come sempre, dobbiamo godercela”.

In campo, invece, de Roon non sembra uno che se la gode, anzi: il sacrificio è il suo tratto distintivo, mescolato all’intelligenza tattica. “Giocatori come Marten sono fondamentali, mi aiutano anche nell’inserimento dei nuovi acquisti, potrebbero fare gli allenatori anche loro. L'esempio che danno, la mentalità che trasmettono: sono collaboratori aggiunti”, aveva detto Gasperini celebrandone le 300 presenze in nerazzurro a inizio stagione. Nel frattempo sono diventate 344, un numero spaventoso: è il secondo all time nella Dea, alle spalle del solo Bellini, primo a 435, ed è ovviamente il capofila per quel che riguarda le presenze in competizioni Uefa. Ha raccolto l’ideale testimone di Glenn Stromberg, l’altro grande idolo straniero della storia nerazzurra: è diventato parte del paesaggio, del territorio. Mastica il dialetto, complici alcuni suoni del bergamasco così simili alla sua lingua madre. È un leader silenzioso, icona di resistenza, un faticatore che ormai, a forza di star lì, è diventato più bergamasco dei bergamaschi.

Lo attendono due finali una più importante dell’altra, per riuscire dove fin qui il ciclo gasperiniano non si è mai spinto: alzare un trofeo, quel trofeo che manca dal 1963, una tripletta di Angelo Domenghini a stendere il Torino e regalare ai nerazzurri la Coppa Italia. “Al ritorno da Liverpool, ho incontrato a Bergamo persone che piangevano dalla felicità. Giocare davanti alla nostra gente significa non sentire la fatica”, ha detto tra l’andata e il ritorno dei quarti di finale di Europa League, davanti a quello che sembrava dovesse essere l’ostacolo insormontabile e che invece è stato spazzato via. De Roon è pronto a guidare ancora una volta i suoi compagni. Gli altri si prenderanno la scena, lui rimarrà nelle retrovie, in silenzio. Da buon bergamasco, verrebbe da dire.

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