O. J. Simpson (foto Ap, via LaPresse=ì)

1947-2024

Le molte vite di O. J. Simpson

Roberto Gotta

La morte dell'ex campione di football americano e quel groviglio di esistenza in cui è stato spesso impossibile dare un giudizio definitivo perché appena si cadeva nella tentazione di farlo accadeva qualcosa che costringeva a riavvolgere il nastro di pensieri e valori

OJ Simpson non ha lasciato la vita, ha lasciato l’ultima delle vite che ha vissuto. Quella più anonima, conseguenza del declino fisico, della malattia che lo ha portato alla morte e della necessità americana di lasciarsi alle spalle un passato intricato e controverso per ripartire, anche se nel suo caso non era ben chiaro come.

Cos’è ora e cosa sarà nel tempo OJ Simpson? Il ragazzino problematico e da riformatorio redentosi dopo un colloquio con la star del baseball Willie Mays? Il formidabile prototipo fisico capace di battere record nel football americano e nell’atletica leggera, compreso quello della 4x100 con la sua squadra di college? Il volto sorridente e carismatico che per primo, tra gli atleti afroamericani, fu accettato e amato da tutti gli statunitensi per le parti da attore in film, telefilm e spot pubblicitari? O, forse, il probabile/possibile assassino dell’ex moglie Nicole Brown e di un cameriere, Ron Goldman, assolto dalla giustizia ordinaria ma condannato poi dalla giustizia civile e successivamente arrestato per furto aggravato e condannato a 33 anni di reclusione?

Tutte vite conseguenti l’una all’altra e in parte sovrapposte, in un groviglio in cui è stato spesso impossibile dare un giudizio definitivo perché appena si cadeva nella tentazione di farlo accadeva qualcosa che costringeva a riavvolgere il nastro di pensieri e valori. Quel che è certo è che dal 12 giugno 1994, giorno dell’omicidio di Brown e Goldman, la sua immagine pubblica è stata disintegrata per gran parte degli americani, non prima però di essere passata attraverso una serie di eventi che hanno letteralmente scritto la storia sociale e (in parte) legale: a partire, il 17 giugno, giorno dell’inizio dei Mondiali di calcio proprio negli Stati Uniti, dalla sua fuga sul suv guidato a bassa velocità dall’amico ed ex compagno di liceo, università e squadra Allen Cowlings, con le auto della Polizia a seguire a distanza sufficiente a non indurlo a gesti disperati (aveva con sé una pistola). Tutte le emittenti la mandarono in diretta, persino la Nbc che in quel momento mise gara5 della finale Nba tra New York Knicks e Houston Rockets in un riquadro, e a guardarla furono 95 milioni di americani, ipnotizzati dalla notorietà di Simpson, dalla crudeltà dei dettagli sul duplice omicidio e dal lustro addizionale, macabro in questo caso, dato dal fatto che tutto quello stesse avvenendo a Los Angeles.

Il processo fu davvero il processo del secolo, o quasi, primo caso di avvocati e pubblici ministeri diventati celebrità pure loro, compreso Robert Kardashian, padre delle sorelle di futura notorietà social-televisiva ed compagno di università di Simpson, al quale fornì assistenza gratuita anche perché non aveva rinnovato la licenza da legale: e fu anche un esempio negativo di gestione della giustizia. Dopo 16 mesi arrivò il verdetto di non colpevolezza, basato in parte sul mancato rispetto delle procedure di raccolta e conservazione delle prove da parte degli investigatori e in parte da una complicata serie di altre considerazioni. Un momento teatralmente perfetto fu quello in cui a Simpson fu chiesto di indossare un guanto che, sporco di sangue, era stato trovato sul luogo del delitto: il guanto si dimostrò troppo piccolo per le manone di OJ e l’avvocato principale, Johnnie Cochran, ne approfittò per un altrettanto teatrale “if it doesn’t fit, you must acquit” (se non è la sua misura, va assolto). Al verdetto si scatenarono scene di protesta e giubilo, compreso il gesto del pugno chiuso, il segno di protesta afroamericano reso celebre alle Olimpiadi del 1968, eseguito da un membro della giuria popolare, Lionel Cryer, ex militante del movimento rivoluzionario Black Panthers che per motivi misteriosi non era mai stato ricusato da Marcia Clark, il procuratore capo.

Del resto, da subito era diventato un processo con forti toni razziali, afroamericani perlopiù convinti dell’innocenza di OJ e bianchi+ispanici convinti del contrario, il che fu paradossale perché la sua dilagante notorietà di attore, atleta e personaggio pubblico tra i più celebri degli anni Settanta era nata proprio dal suo rifiuto a priori di dividere l’opinione pubblica in base al colore della pelle, anzi unirla tramite quel sorriso, quei modi carismatici, quell’atteggiamento che un editorialista americano definì efficacemente “di interazione con donne e uomini bianchi come se fosse naturale, come se altri atleti afroamericani in quel tempo non stessero protestando per episodi di segregazione ancora esistenti”.

Nel periodo migliore, durato almeno una ventina d’anni, non poteva mostrarsi in pubblico senza essere travolto da richieste di strette di mano, di autografi, di fotografie, era il marito che molte madri, anche di pelle bianca, avrebbero auspicato per le figlie: emanava un’energia positiva che in altro settore, quello del football, aveva confermato il soprannome OJ, coniato dalla zia che del resto era stata anche responsabile del nome di battesimo, Orenthal James. C’era l’assonanza con qualcosa di positivo e nutriente come il succo d’arancia, orange juice dunque appunto OJ, ma soprattutto con il fatto che l’energia elettrica in gergo si chiama anche ‘juice’, e non per nulla gli uomini della linea di attacco dei Buffalo Bills, la sua principale squadra professionistica, furono così chiamati The Electric Company. Bei tempi, spariti in quella notte di giugno 1994, e mai più tornati.

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