Floyd Patterson (1935 – 2006), dopo aver mandato al tappeto Archie Moore. E’ stato campione dei massimi tra il 1956 e il 1962 (foto Getty) 

storie senza tempo

Il colpo del canguro di Patterson

Fabio Tavelli

Floyd era un medio naturale diventato campione dei massimi. Nonostante la valigia del perdente

Anche quella mattina, come tante altre nella sua vita di atleta e campione, aveva messo in valigia gli attrezzi del perdente. Nella testa della gente il campione del mondo dei pesi massimi è un uomo al di sopra delle paure, un eroe d’altri tempi capace di salire su un ring mezzo nudo e prendere a cazzotti un suo simile. Il campione del mondo dei pesi massimi, per definizione, non può avere paura. È un sentimento riservato ad altri. Floyd Patterson campione lo era diventato molto presto, pure troppo. Ma d’altronde questo ragazzo di Waco (Carolina del Nord) era abituato a fare tutto in fretta. Come alle Olimpiadi di Helsinki 1952. Medaglia d’oro nei pesi medi a soli 17 anni. Pesi medi? Floyd era un medio naturale, un metro e 80 in altezza (negli anni ’50 del secolo scorso era una buona statura, oggi è il minimo sindacale) e un’ottantina di kg. Agile, molto, veloce, pure, senza un colpo pesante. Ma con un gancio sinistro ribattezzato come il “colpo del canguro”. Floyd lo tirava così carico di spinta e ambizione che si prendeva sempre il rischio di mancare il bersaglio e finire fuori equilibrio volando oltre le corde atterrando sulle ginocchia dei cronisti in prima fila. Ma se il colpo fosse andato a segno diventavano dolori per l’altro. Sognava questo, Floyd, prima di incrociare il suo carnefice. Resistere alla sua forza bruta per qualche round, sfruttare la di lui scarsa preparazione fisica e una volta visto l’orso stanco ecco il colpo del canguro a far giustizia della diversa taglia. Sogni, immagini che si affastellano nella mente del campione mentre riempie la sua valigia da perdente. 

Cus D’Amato lo aveva preso sotto le sue amorevoli cure quando Floyd aveva 14 anni e da bravo pigmalione gli aveva evitato di andare a sbattere contro barriere insormontabili. Eppure la sorte era stata benevola con Floyd, travestendosi da rinuncia. Quella di Rocky Marciano dopo 49 vittorie indiscutibili. Il campione, quello vero, aveva detto che poteva bastare così e quando il sole tramonta anche l’ombra del nano si allunga. Una corona pesante come quella dei massimi non può restare vacante per troppo tempo e il destino chiamò a sfidarsela un giovane vecchio, il nostro Floyd, e un vecchio giovane. 

Archie Moore aveva 39 anni, 18 più di Patterson. Avrebbe potuto essere suo padre. Cercava, il vecchio Archie, un improbabile titolo postumo dopo essere passato tra le corde 188 volte. Non ci riuscì, il colpo del canguro lo mise di fronte al suo ineluttabile destino alla quinta ripresa. Floyd era campione. Quel che non era, invece, era la categoria di appartenenza. Un medio che diventa campione del mondo dei massimi è qualcosa di inaccettabile. Lo diventava grazie, anche, al modo di comportarsi di FP. Cordiale, rispettoso, affabile. Una brava persona, insomma, non come quegli avanzi di galera che una volta salutate le sbarre uscivano a far danni. E tra questi quelli agli avversari su un ring. 

Era un ragazzo di colore che la società a dominanza bianca poteva anche accettare. Ma Floyd aveva sempre con sé la sua valigia del perdente. Si stava materializzando come un puzzle il suo destino, sotto forma di un gigante nero e torvo appena uscito di prigione dopo l’ennesima rapina. Sonny Liston era l’ultima persona che avresti voluto incontrare in un vicolo buio. Rappresentava plasticamente gli incubi di tutti i bambini quando si svegliano di soprassalto perché l’uomo nero irrompe nella loro immaginazione. Aveva un jab tremendo, una cannonata che una volta costrinse alla maxillofacciale il malcapitato che aveva di fronte. Il chirurgo dovette operarlo perché non si riusciva proprio ad estrargli il paradenti. E quando l’operazione riuscì, insieme all’attrezzo il medico dovette raccoglierne incastrati dentro ben sette denti. Questo per dire a che razza di bombardamento si sarebbe andato a sottoporre il tenero Floyd. Che in quella valigia metteva sempre qualcosa di più oltre ai guantoni e i ferri del mestiere. Ci metteva un travestimento, barba e baffi finti fatti su misura. In caso di vittoria tutto sarebbe rimasto dentro. Al contrario si sarebbe camuffato e sarebbe uscito da una porta secondaria facendo sparire le sue tracce per non essere costretto a confrontarsi con l’onta della sconfitta. Saputo di questa sua assurda mania alcuni giornalisti inglesi preso a ribattezzarlo “Freud” Patterson, calcando sulla sua tendenza pervicace a dubitare di sé. Qualche motivo per non essere troppo confidente nella sfida contro la montagna nera però era comprensibile. “Freud” aveva sempre fatto fatica contro quelli molto grossi, ai quali non sempre il colpo del canguro andava oltre il solletico. 

Ingemar Johansson, un armadio svedese stile Ikea con poco talento ma spalle come montagne, lo mise sette volte al tappeto. E dopo ognuna FP si rialzava stordito, ma convinto di non essere nella realtà. Cartesianamente si chiedeva se quello che stava vivendo fosse un incubo o no. Peccato per il nostro che in uno di quei sette viaggi con la faccia sul ring guardando verso le prime file incrociò lo sguardo severo di John Wayne. Il grande attore, idolo di Floyd come di molti altri, era lì come spettatore. Cosa starà pensando di me?, si chiese Patterson mentre arrancava verso le corde per tirarsi su di nuovo in attesa che l’arbitro sentenziasse che di quel match aveva visto abbastanza. Quel giorno, chissà perché, non aveva portato travestimenti. Si fece prestare un cappello e se lo calcò in testa fino agli occhi come se volesse sparirci dentro. “È troppo buono, troppo gentile con gli avversari. Gli manca l’istinto omicida, ho fatto di tutto per mettergli un po’ di rabbia nel sangue. Ma il gusto di far male, quello non ce l’ha”, disse un giorno Cus D’Amato a chi gli chiedeva se fosse a conoscenza di barba e baffi finti in valigia. Cus fece di tutto per evitare che Floyd si trovasse di fronte un camion lanciato a tutta velocità come Sonny Liston. Ma quando John Fitzgerald Kennedy, in persona, chiese a Floyd perché non combattesse contro Liston, “Freud” tolse per una volta la maschera e disse che sì, lo avrebbe fatto. Pentendosene per tutta la vita. “Cosa avrei potuto rispondere?”, si chiese. “Già sono terrorizzato dal fatto di poter deludere gli altri, come avrei potuto dire di no al Presidente?”, fu uno dei suoi rovelli mentre il ticchettio dell’orologio lo portava sempre più vicino al suo ineluttabile destino. 

Era il 1962, i giornalisti contavano ancora qualcosa. Misero di fronte il Bene al Male, il Buon Negro al Negro minaccioso. Arthur Daley scriveva sul Times, Norman Mailer definiva Patterson “l’archetipo del perdente, un principe decaduto”. Per lui “Liston era Faust, il faro di quella gente con la cicca in bocca alle corse dei cavalli”. Liston non sapeva nemmeno leggere un cartello stradale, figurarsi un giornale o un libro. Era la moglie a fargli da interprete. Da quel poco che aveva capito, Sonny era sicuro di non avere molti fans tra i pennuti. E di questo gli fregava il giusto. Se Floyd portava in valigia barba e baffi finti lui metteva la tunica del carnefice. Un drappo bianco incapace di contenere quella esplosione di muscoli. Ma a far paura era il suo ghigno assente, quell’occhio spento e inespressivo che non prometteva niente di buono. 

La boxe era tutt’altro che un evento marginale nella vita americana. Tutto quel carico di simboli accumulati sulle spalle di due uomini che se le danno per soldi sul quadrato suona oggi vagamente ridicolo. Pur essendo uno sport così minimale, uno contro uno, senza mazze, palle o racchette, venivano facili le metafore della lotta, del confronto inappellabile. La retorica esige un contrasto netto come nelle commedie grossolane. E più netto il contrasto tra i due non avrebbe potuto essere. Nero contro nero era l’unica similitudine. Il resto era differenza, frattura, necessità di scegliere da che parte stare. E quando il tempo della chiacchiera termina arriva quello della chiamata al centro del ring. Dove tutto quello che hai fatto, o non hai fatto, presenta il conto. Le parole dell’arbitro che impugna un microfono che scende dall’alto, raccomandazioni mandate a memoria come “niente colpi sotto la cintura” o “tenete alta la testa, se c’è un ko chi resta in piedi vada subito all’altro angolo” entrano nel cervello rettile fino a scomparire in quello limbico. È il momento di guardarsi negli occhi. E di cercare quelli dell’altro per vedere cosa c’è dentro quel corpo. Quelli di Sonny vanno a cercare pupille che non trovano. Le avrebbe raccolte sulla punta delle sue scarpe, esattamente dove Floyd stava guardando.   

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