Stephan El Shaarawy (foto LaPresse)

Crocicchi #9

L'attimo in cui El Shaarawy e Zalewski hanno dribblato le accuse

Enrico Veronese

Tirati in mezzo nel caso della scommesse sul calcio, i due romanisti hanno aggiunto tre punti alla classifica della Roma di Mourinho contro un Monza con un uomo in meno

E adesso diranno che tutti lo sapevano, che lo sguardo serio e compìto di Nicolò Fagioli non poteva che nascondere segreti indicibili, in specie per una persona riservata e apparentemente sociopatica. “Non lo vedi che qui non ci voglio stare?”, dicono quegli occhi anche quando scrivono sfrontati di portare la Cremonese in Serie A, e lo fanno: il resto viene dopo. “E adesso che farò, non so che dire / ho freddo come quando stavo solo”: Sandro Tonali invece ha scelto il silenzio oratoriale, da volto giovane, precoce duro. D’altronde la sua posizione viene riferita più grave. Tutt’altra pasta di Nicolò Zaniolo, che a Roma avrebbe potuto essere per anni l’eroe dell'Europa League e vivere di rendita, acquattato nella dolce vita capitolina. Ma all’annuncio del suo nome vagante nell'inchiesta relativa alle scommesse, non si è stupito quasi nessuno: era già acqua passata. A differenza di un altro protagonista: “Nel momento in cui la Roma ha perso Zaniolo, el Shaarawy è tornato Faraone”, scriveva Marco Gaetani in queste pagine, lo scorso maggio.

Stephan el Shaarawy invece ha un’altra faccia ancora, un’altra smorfia, e pure un’altra reazione. Che non sia uno Zaniolo, si vede: in estate si è ridotto l’ingaggio pur di rimanere alla Roma, dove sarebbe un’ala sinistra - come contro l’Inghilterra - ma arretra, si accentra, cambia fascia, per José Mourinho fa pure il mediano, come Emanuele Giaccherini era per Antonio Conte. Due settimane a tinte forti, le sue: il ritorno in Nazionale da titolare, a Wembley, e contestualmente la ridda di voci messa in circolazione da un avventuriero senza scrupoli. I lazzi nei messaggi, le formazioni degli undici scommettitori, titolari o riserve. Domenica l’ex ragazzo prodigio poteva giocare condizionato, risentirne: di più, chiedere di non essere convocato, di essere risparmiato. Ne avrebbe avuto ben donde, sarebbe stato compreso anche dalla tifoseria. Invece Stephan si è allenato con profitto, ha metabolizzato, è stato protetto. Come Nicola Zalewski, un altro che non le ha mandate a dire dopo il tritacarne di Fabrizio Corona, le illazioni, i metodi Boffo. In campo tutti e due, ma non da subito e non per gli schizzi di fango.

Roma, la città del Parlamento nel giorno delle elezioni suppletive di Monza: candidato Adriano Galliani, amministratore delegato della squadra ospite. Consueta organizzazione di gioco che prescinde dall’avversario, in casa e in trasferta, mai a scapito di trame tanto quadrate ed efficaci, quanto ostiche da affrontare. L’allenatore Raffaele Palladino è sostenuto ciecamente dalla proprietà: può lavorare con profitto, gli viene lasciato il tempo per metabolizzare le sconfitte, è curato e infonde cura. Rimane in dieci alla fine del primo tempo (come peraltro, la sera, i vicini di casa del Milan) per un secondo giallo poco meno che fiscale, di quelli che oggi taluni arbitri manco sanzionano, presi dall’ammonire per “proteste”, cioè per la loro lesa maestà. Giacchette protagoniste che rubano la scena allo spettacolo: non è il caso dell’Olimpico, sia ben detto.

Il secondo tempo del Monza in dieci è sofferenza e applicazione, cambi mirati e dosi di energia. La Roma accerchia e ci prova, confusamente, à la Mourinho: empiti, assalti, pause, riposizioni. E polveri bagnate, due legni, grandi parate di chi è lì per quello, è il suo lavoro: e Michele di Gregorio lo fa sempre bene. Il fortino resiste minuto dopo minuto attorno al colonnello Kurtz, Luca Caldirola: un punto in queste condizioni è oro puro, i brianzoli lo stanno per portare a casa come una corona ferrea. E chissà che non ci scappi il bottino pieno, azzarda da fuori area Andrea Colpani, i cui piedi presto calcheranno ogni quindici giorni stadi come questo.

Invece: traversone del subentrato e chiacchierato Zalewski, torre, sponda, rimbalzo, tiro secco del subentrato e chiacchierato el Shaarawy, gol. Al 90esimo, dopo sortilegi e strenua resistenza.

“Ho la coscienza a posto”, dichiarerà il Faraone. “In quella corsa sotto la curva c’era tutto, c’era la rabbia di aver sentito voci non vere. Penso che andare a gioire con i tuoi tifosi sia una delle emozioni più belle. Ho pensato sempre e solo a questo, la voglia di fare bene e aiutare la squadra. Quell’emozione che mi ha accompagnato in tutte le squadre. Sono sempre stato un professionista e non ho mai pensato di mancare di rispetto al mio lavoro, allo sport che amo. Come si può pensare di farlo, quando vivi tutto ciò?”. Senza il goal, lo dice egli stesso, “si sarebbe parlato di altro, e di un’altra Roma”, schiava dei fantasmi.

Ma i Lares Compitales, protettori dei crocicchi, lo hanno piazzato là, al centro dell’area: lui che ne percorre usualmente un perimetro. A tirare di destro, al volo, un rimpallo che poteva essere deviato altrove: la razionalità e l’autore del Grande Libro del Calcio si sono trovati d’accordo con i ludi latini per propiziargli la strada fausta. Lotta, corsa e recitazione: a trent’anni Stephan ce le ha tutte, era e rimane da grande squadra. Gli immoralisti dell’ultimo minuto, che affollano quotidianamente i paraventi delle tabaccherie e gli slot bar, sono i sepolcri infarinati che contribuirono -notizia che non striscia- ad allontanarlo da Milanello e a spedirlo in Cina. Non c’era più Galliani a coccolarlo (“come lui solo Neymar”, 2012), anzi ieri se l’è trovato di fronte: ma Stephan el Shaarawy ha saputo superare indenne, e da solo, una biforcazione pericolosa poiché incustodita. Giusto all’ultimo minuto: Pupi Avati potrebbe pensarci per uno dei suoi remake.

   


   

Crocicchi è la rubrica di Enrico Veronese che ci terrà compagnia in questi mesi di Serie A. Sarà il racconto, giornata dopo giornata, degli incastri imperfetti che il calcio sa mettere in un campo di gioco, di tutto ciò che sarebbe potuto essere, ma non è stato. Che poi, in fondo, è il bello del calcio.