
Eden Hazard con la maglia della Nazionale del Belgio (foto Ap, via LaPresse)
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L'addio al calcio di Eden Hazard
Era un bel vedere il belga. Un giocatore piccolo, veloce, capace di fare con il pallone un sacco di cose difficili, che sapeva rendere quasi semplici. Era tutto il contrario dell'Hazzard telefilm: una trama raffinata, ma priva della solidità di un Generale Lee
Prima della comparsa su di un campo di calcio di Eden, Hazzard era soltanto una contea immaginaria in Georgia, Stati Uniti, nella quale c'erano due simpatici birbanti che su di una Dodge Charger R/T arancione scappavano da poliziotti anch'essi simpatici, ma meno dei birbanti, a bordo di una Dodge Monaco o di una Plymouth Fury. Non c'era molto di più delle scorribande automobilistiche nella trama del telefilm. Ebbe comunque un buon successo di pubblico. E ancora adesso viene ricordato da una buona parte di chi, allora ragazzino, per qualche periodo della sua vita aveva creduto che fosse una gran cosa entrare in auto dal finestrino.
Poi arrivò un altro Hazard (con una z in meno), Eden Hazard. I ragazzini di allora erano cresciuti, a una parte di loro, sentendo il cognome del giocatore belga, ritornò in mente il telefilm che fu, e vedendolo giocare scoprirono che le sue trame calcistiche erano senz'altro più elaborate di quelle televisive dei cugini Duke e compagnia. E questo nonostante l'assenza di Daisy.
Era un bel vedere Eden Hazard. Un giocatore piccolo, veloce, capace di fare con il pallone un sacco di cose difficili, che lui sapeva rendere quasi semplici. È dono di pochi saper fare questo. Lui ci riusciva.
C'è da vedere se tra venti o trent'anni, il tempo che è passato dal grande successo del telefilm Hazzard, qualcuno dei ragazzini di poco fa, si ricorderà di lui al modo in cui i ragazzini che furono si ricordano di Bo e Luke, dello zio Jessie e Daisy, di Boss Hogg e Rosco Piiii Coltrane. Probabilmente sì. Era un bel vedere Eden Hazard. Era, si è ritirato oggi dal calcio giocato a 32 anni.
Al Lilla quel talento lo videro tutti eppure lo videro in pochi, lo segue nessuno il calcio francese se non si è francese. Rimase impresso però a quelli del Genoa, allora europeo. Giocò sedici minuti, fece quello che voleva con il pallone, fece ammattire Giandomenico Mesto, Salvatore Bocchetti, Ivan Juric e tutti quelli che incontrò davanti.
Rimase impresso soprattutto a una mezza dozzina di osservatori italiani che da lì a poche settimane iniziarono a chiedere informazioni sull'esterno belga. Il Lilla disse loro che per meno di una dozzina di milioni di euro non si sarebbero seduti nemmeno a un tavolo. Poteva essere un affarone, non se ne fece nulla. Due anni e mezzo dopo arrivò il Chelsea: versò 40 milioni alla società francese e lo portò a Londra.
Coi Blues vinse tanto, non tutto: due Premier League, due Europa League, una Coppa di Lega e una Coppa d'Inghilterra. Con addosso la maglia del Chelsea fece ammattire le difese di tutta Europa. Scattava, dribblava, tirava, segnava e concedeva assist a ripetizione. Ce ne erano pochi in giro di calciatori così in giro.
Pure al Real Madrid – che per lui pagò circa 100 milioni di euro – vinse molto, questa volta tutto. Giocò però poco e parecchio male. In Spagna sembrava un altro, non più lui. Quell'uomo che in blu faceva innamorare, in bianco faceva penare. A tal punto da spingere i tifosi dei Blancos a chiedersi se davvero fosse lui, e non il fratello (per altro più che discreto giocatore), a essere arrivato nella capitale iberica.
In Spagna, a Madrid, si materializzò il dubbio che si era già insinuato nella mente dei tifosi del Chelsea. Erano tutti innamorati del belga, ma, nelle ultime stagioni, avevano iniziato a chiedersi se davvero fosse il giocatore giusto con cui poter vincere. Perché le sue giocate erano strepitose, e nessuno aveva dubbi su questo, ma si interrompevano sempre al momento più importante, quando le cose iniziavano ad andare maluccio e serviva qualcuno capace di dare la svolta.
Gli stessi dubbi che avevano i belgi, quando vedevano quell'uomo dal talento enorme scomparire proprio quando la Nazionale avrebbe avuto bisogno di una guida, di un'orgoglioso capopopolo capace di fregarsene di tutto e infondere fiducia a tutti i compagni.
Poteva essere il simbolo di una Nazionale capace di rivoltare le gerarchie calcistiche, il grande protagonista di un gruppo di più o meno coetanei dotati di un talento mai visto a quelle latitudini e a quelle longitudini. Si trasformò, suo malgrado, in una delle più belle cose mai successe del calcio, e non solo belga. Uno sfiorare la forma massima dell'estetica del calcio, poi scivolata via per mancanza di quel po' di durezza e cattiveria che rende reale l'immaginario.
Eden Hazard era tutto il contrario dell'Hazzard telefilm. Era una trama raffinata, ma priva della solidità di un Generale Lee. Una trama troppo corta, che forse poteva durare qualche anno in più, ma "devi saper ascoltare e fermarti al momento giusto", ha scritto su Instagram. C'è da credergli.