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alla grande boucle

Il sentiero di Kwiatkowski tra le genti del Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Il polacco vince in vetta al Grand Colombiere. Tadej Pogacar stacca Jonas Vingegaard e gli rosicchia altri 4 secondi e quattro d'abbuono. La lotta la maglia gialla è racchiusa in nove secondi dopo tredici tappe

Se c'è una cosa che gli appassionati di biciclette non potranno mai sperimentare dell'esperienza dei corridori professionisti è quel muro di volti, espressioni, bocche talmente aperte che si può veder ugola e tonsille, che si para davanti a loro nelle giornate di montagna in una grande corsa a tappe. Per il resto si può imitarli in tutto, dalle bici alle salite. Questa esperienza no, nemmeno pagando una vallata intera pur di sperimentare l'effetto che fa. Urla, colori, calore è solo affar loro. Negli ultimi chilometri della tredicesima tappa del Tour de France, la strada che portava in cima alla Grand Colombier si è ristretta, è diventata un corridoio stretto che si apriva piano piano, passo indietro dopo passo indietro, al passaggio dei corridori. Michał Kwiatkowski era l'avanguardista nel guado in quel torrente di gente ingrossato dalle piogge della passione ciclistica. È passato per primo là in mezzo. Chi è arrivato dopo però ha trovato la stessa situazione, lo stesso spostamento di anime. Un corridore può piacere più di un altro, ma si tifa tutti lungo le strade del ciclismo, non c'è striscione per Thibaut Pinot o Guillaume Martin che tenga. È anche questo il bello di questo sport, i rischio di buttar via una tappa per un incontro ravvicinato con il pubblico: è successo (anche a Vincenzo Nibali), succederà ancora, ma far procedere in silenzio e solitudine i corridori verso una cima, come è successo al Puy de Dôme fa perdere un bel po' di fascino e di significato alla corsa.

Michal Kwiatkowski ha fatto da apripista nell'avanzata dei corridori tra le folle. È stato il primo a raggiungere la cima, ha detto che è stato meraviglioso e si riferiva al pubblico (per la vittoria solo contentezza). Ha fatto tutto per bene oggi il polacco: è riuscito ad agguantare la fuga giusta, è salito a suo passo, non badando agli scatti altrui, gli ha lasciati fare, ha inseguito quelli che aveva più fretta di arrivare in vetta – Quentin Pacher, James Shaw, Maxim Van Gils e Harold Tejada –, poi ha imposto il suo passo, è rimasto solo, prima si è trasformato per loro in schiena, infine in ricordo e rimpianti: nessuno gli è riuscito a stare dietro.

   

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E sì che l'hanno inseguito, e pure forte. Tadej Pogacar aveva messo a faticare davanti al gruppo tutto il meglio che ha a disposizione: da Matteo Trentin a Rafal Majka. Era scattato pure Adam Yates, il suo luogotenente, l'uomo che deve stargli vicino, il più attaccato possibile. Voleva vincere Tadej Pogacar. L'aveva anche detto. Ha agito dalla partenza di conseguenza schierando Mikkel Bjerg, Vegars Laengen e Matteo Trentin a tenere sotto controllo i diciannove corridori in avanscoperta. Non ci sono riusciti del tutto, ma davanti c'era gente tosta capace di tenere altissime velocità.

Tadej Pogacar è stato tranquillo a ruota dei compagni di squadra, alle sue spalle sempre la presenza silenziosa di Jonas Vingegaard. Non si è mai spostato, l'ha inseguito per tutta la tappa, o almeno quando poteva esserci un minimo pericolo. Il danese ha provato a sfibrare di marcamento lo sloveno come Pogacar aveva con lui su e giù dal Col du Tourmalet. Lo sloveno però a certe cose non bada, lui sorride, a un certo punto si alza sui pedali e scatta indipendentemente da chi sa di avere a ruota. Nell'ultimo chilometro ne ha fatto uno di almeno quasi mezzo chilometro, un accelerazione violenta, un pugno sullo stomaco. L'hanno accusato tutti, Vingegaard no, almeno per un po', centinaia di metri. A un certo punto si è accorto anche lui del dolore, del fiato spezzato e ha ceduto. Altri quatto secondi che coi quattro d'abbuono per il terzo posto fanno otto, che tolti ai diciassette che aveva di vantaggio fanno nove secondi. La lotta la maglia gialla è racchiusa in nove secondi dopo tredici tappe. Dietro a loro un vuoto ampio, non immenso, ma pieno d'eco: Jay Hindley è a 2'51”, Carlos Rodriguez a 4'48”, Adam Yates a 5'03”, Simon Yates a 5'04”, Pello Bilbao a 5'25”, Thomas Pidcock a 5'35”. Sabato e domenica le prime due tappe sulle Alpi sistemeranno un po' le gerarchie, allungheranno ancora i divari.

Potevano già essere più ampi. I due, i soliti due, però per una volta hanno preferito attendere. Non ci si può prendere a schiaffi ogni giorno e a lungo, i ciclisti non sono più rughe e facce da fame antica di un tempo, hanno la necessità di avere una presenza scenica accettabile. Uno come Jacques Anquetil – bello, affascinante ed elegante – era un eccezione, ora lo sarebbe Jean Robic.

Il proscenio se lo sono conquistato altri, Michal Kwiatkowski in primis, soprattutto la salita. Perché ci sono salite che lasciano la sensazione che sia fantastico, magnifico pedalarci su. Ci sono salite più materne di altre.

È un atto di generosità il tornante. Per chi pedala, perché se preso all'esterno concede un attimo di fiato – ma vale solo per i brocchi, che ai campioni non serve, vanno su e forte sempre – lenendo, un poco almeno, la fatica dell'ascendere. Per chi guarda, perché si vede a lungo e pure di sotto, se si è nel punto giusto, se la salita lo concede. Il Grand Colombier concede, è esibizionista: un panettone enorme con attorno niente. Non poteva essere esibizionista pure la sua strada, almeno quella che sale da Culoz: si fa ammirare da lontano e dall'alto, con quei Lancets posti in favor di sole e telecamera.

   

     

È ardito il Gran Colombier, ardita la sua via per la cima: non era lì, era altrove, saliva verticale. Quando c'erano solo i muli andava bene uguale, poi con l'arrivo della modernità l'hanno dovuta spostare, prendere il tratto meno pendente, il più esposto, uno sperone mezzo roccia e mezzo prato, luogo per capre (ci sono ancora, il formaggio di capra di Culoz è delizioso). L'hanno abbellito con un tornante dopo l'altro, vicinissimi, a disegnare sulla montagna il disegno che fanno i lacci delle scarpe. È scoperta recente il Gran Colombier: nella geografia del Tour de France è entrato nel 2012. Da allora è presenza ricorsiva: viene bene in tivù. È piaciuto mai troppo il Massiccio del Giura alla Grande Boucle e sì che è una bella salita il Gran Colombier, di quelle all'antica, che se ne fregano della pendenza media: va su a scaloni, tratti durissimi e momenti per rifiatare.

È corridore all'antica anche Michal Kwiatowski, con i suoi mezzi sorrisi, i mezzi scatti, le mezze occhiate, il suo essere corridore pieno, eccezionale, senz'altro non mezzo corridore. Ha vinto tanto, ha vinto bene, è stato onesto, sempre. Sapeva di un essere un campione, aveva capito che la sua dimensione non era quella del gran vincente, si è messo a disposizione, diventando uno di quei corridori con i quali vale la pena correre, che è meglio avere affianco che contro. Ogni tanto si è concesso qualche successo, giusto per concedersi il gusto del ritorno al vizio.

È corridore all'antica anche Quentin Pacher, uomo di fatica e attacco, uomo che si sa stupire e commuovere. Durante l'ottava tappa, tra Libourne e Limonges, tra i corridori in gruppo il più cercato, applaudito e chiamato era stato Quentin Pacher. È nato a Libourne, è uomo di casa e di corse in zona non ce ne sono tante. Lui lo chiarito, leggermente rosso per l'imbarazzo di aver tolto attenzione a quelli più bravi. Poi ha confidato: “Non è male così. È bello sentirsi un po' speciale”. C'ha riprovato oggi. Sperava di trasformare la Grand Colombiere nel Libournais. La magia però non gli è riuscita.

 

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