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Uno scudetto di rabbia. L'Olimpia Milano vince il suo trentesimo campionato

Umberto Zapelloni

La squadra di Messina era stata creata per giocarsi l'Eurolega, ha ottenuto la terza stella dopo una serie combattuta e incerta contro la Virtus Bologna

Il più contento di tutti alla fine era l’uomo a cui Milano deve tutto questo: Giorgio Armani. Senza di lui l’Olimpia non sarebbe qui. Non sarebbe ancora sul tetto d’Italia alla fine di una serie estenuante, in una gara sette giocata con una ferocia pazzesca e un Gigi Datome che chissà dove ha preso tutta questa energia. Milano festeggia e se la gode. Fa bene perché di fronte aveva una signora squadra e arrivare davanti sul traguardo non era facile per come si era messa.

Dietro e dentro lo scudetto della terza stella dell’Olimpia ci sono un sacco di significati. Dentro lo scudetto numero 30 c’è l’orgoglio di aver raggiunto una vetta che pochissime squadre dello sport italiano hanno scalato, scrivendo la storia delle loro discipline. Ma dietro il titolo italiano c’è anche la rabbia per aver fallito la campagna europea in un anno in cui la squadra sembrava costruita apposta per arrivare almeno alle Final Four di Eurolega. L’orgoglio e la rabbia. Sensazioni che convivono nel giorno di festa in cui si sarebbe portati a dimenticare quanto si è sbagliato durante la stagione.

Un errore che l’Olimpia in festa non può permettersi perché, con il budget e le strutture che ha a sua disposizione, non è una squadra che può permettersi di raccogliere le ciliegie solo nel suo frutteto. Deve andare a cercarle dovunque, ampliare i suoi orizzonti. Sarebbe come avere una Red Bull e gareggiare solo nelle corse con le automobiline a pedali. La Milano targata Armani, la Milano che deve tutto a Giorgio Armani, a Leo Dell’Orco e al loro amore per il basket, non può accontentarsi di contare uno scudetto dietro l’altro, anche se questo è il trentesimo, anche se questo è arrivato in un’annata dispari in cui di solito si asciugavano solo lacrime.

Il giorno dopo aver chiuso la stagione con lo scudetto ricucito sul petto (gli ultimi titoli di fila risalgono alla fine degli anni Ottanta), il presidente dovrebbe convocare l’allenatore in sede e fargli un discorso franco. “Complimenti per lo scudetto, arrivato dopo una serie finale durissima e di grande intensità, ma con quello che abbiamo speso quest’anno non possiamo scordare di non essere neppure entrati tra le prime otto in Europa dopo aver perso la Super Coppa italiana ed esser stati eliminati alla prima partita alle Finals di Coppa Italia. Dobbiamo capire perché abbiamo fallito in Europa, che cosa abbiamo sbagliato nella costruzione della squadra”. Il coach, ossia l’uomo che a Milano ha scelto i giocatori, si prenderebbe le sue colpe, ammetterebbe di aver sopravvalutato qualche acquisto (Pangos, Voigtmann), di essersi fidato troppo di un mini play come Napier, di non aver sfruttato a sufficienza i muscoli di Davies, di aver trasformato in un mistero il talento di Tonut. Si prenderebbe anche i meriti di uno scudetto vinto ricordandosi di avere una panchina, liberando il talento di Shields e Melli, sfruttando l’infinito sapere di Gigi Datome. Il problema è che a Milano tutto questo non può avvenire per il semplice motivo che presidente e allenatore sono la stessa persona ed è difficile che Messina convochi coach Ettore per esonerarlo dall’incarico, è impossibile che il Messina allenatore discuta con il Messina presidente su un acquisto. Forse la formula del presidente allenatore provata da Milano non sempre funziona. Quest’anno, scudetto della terza stella  a parte, non ha funzionato. Perché se il giorno del raduno coach Ettore afferma: “Questa può diventare la miglior Olimpia che io abbia mai allenato” e poi naviga per mesi agli ultimi posti della classifica di Eurolega, qualcosa non è andata come avrebbe dovuto. E la festa scudetto non può cancellare tutto quello che è accaduto prima. I tifosi hanno notoriamente la memoria corta. Nel bene e nel male, Contestano l’eroe della settimana precedente e portano in trionfo colui che avevano fischiato nella partita precedente. Sono così attorno al parquet o al rettangolo d’erba. Hanno la memoria corta. Ma una società, una società fantastica come l’Olimpia, non può far finta di niente anche se ha le camicie fradice di champagne. Il trentesimo scudetto vale una festa, una super festa, ma deve valere anche e soprattutto come lezione  di vita per non ripetere certi errori.

L’Olimpia ha conquistato il suo primo scudetto nel 1936. Da allora è rimasta all’asciutto solo nei primi dieci anni del nuovo millennio, quando il basket italiano era sotto la dittatura (poi rivelatasi illegale) di Siena. Non c’è decennio in cui l’Olimpia non si sia messa in tasca almeno un titolo italiano. Ha sublimato la passione di grandi imprenditori come Adolfo Bogoncelli, come la famiglia Gabetti e ora come Giorgio Armani, ha scritto la storia del basket italiano. Ora deve però giocare d’esportazione: non vince in Europa da 35 anni, troppi per non pensarci. La vocazione della sua proprietà è quella. Parte dall’Italia ma esporta il made in Italy nel mondo. Chi scrive le parole dell’inno di Mameli all’interno delle divise dei nostri atleti olimpici sa bene l’importanza di una vittoria in trasferta. E’ quello a cui deve puntare l’Olimpia. Non accontentarsi di dominare in Italia dove se ha quel budget e quella struttura parti già dalla finale.

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