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Vinceva una coppa e già pensava all'altra. Così il Milan ha conquistato il mondo

Matteo Matzuzzi

I rossoneri erano cacciaviti e rivolti ai ricordi delle vittorie di Rocco, con lui sono diventati gourmet. Il suo più grande lascito non sono le cinque Coppe dei Campioni vinte durante il suo regno, ma la mentalità che ha dato al Milan e, indirettamente, al calcio italiano.

La mano misteriosa che governa il calcio ha fatto sì che proprio nei giorni in cui Silvio Berlusconi moriva in una stanza del San Raffaele, quelli che per un trentennio sono stati i suoi tifosi, i milanisti, ricordavano come tutto iniziò, con gli elicotteri che atterravano sul prato dell’Arena sulle note della Cavalcata delle Valchirie, in un uggioso pomeriggio del 1986. I milanisti, sotto choc per la cacciata di Paolo Maldini, litigavano e si dividevano: questo Gerry Cardinale, il nuovo proprietario americano, è un folle senza portafoglio come i cinesi della parentesi velocemente e facilmente dimenticata, o è un visionario come lo fu Silvio?

Perché lui, quando si parlava di calcio, era sempre un passo avanti agli altri: sceso dall’elicottero, mise alla porta Gianni Rivera, che del Milan era vicepresidente. Tenne per un po’ il saggio Liedholm, immortale pure lui, e poi lo congedò. Scegliendo un curioso allenatore di Fusignano che aveva fatto bene con il Parma in Serie C e B, cui mise in mano una squadra di fenomeni che vinse tutto quello che si poteva vincere. I milanisti piangono il loro presidente, quello che per i due terzi del suo regno – prima del declino in un mondo del calcio che aveva visto entrare i petrodollari di emiri e sceicchi –  li aveva abituati al “regalo” di fine mercato, una ciliegina da aggiungere su una torta già ricchissima e guarnita. E se il regalo non era di quelli unici, curvaioli e gentiluomini della tribuna abbozzavano pure un barlume di contestazione. Abituati bene, i cacciaviti guardati dall’alto in basso dai bauscia interisti della borghesia milanese: Berlusconi li aveva fatti entrare nell’olimpo del calcio che conta. Divenuti gourmet di bocca buonissima dopo decenni trascorsi a rivangare il passato, grande e romantico di Rocco e delle grandi vittorie internazionali, ma anche la vergogna delle retrocessioni in B e la trasformazione a comprimari. Il Milan vinceva e dominava, ma Berlusconi non s’accontentava, non era mai sazio: si faceva fotografare con la Coppa dei Campioni e parlava già dell’Intercontinentale, vinceva l’Intercontinentale e consegnava ai suoi dirigenti la missione di farlo diventare il presidente più vincente nella storia del calcio. E’ stato la fortuna del Milan.

In un calcio in cui ora, stretti tra sceicchi e fondi, qui da noi si punta a vivacchiare, magari ad arrivare tra le prime quattro per affacciarsi in Champions, lui non ammetteva deroghe all’imperativo categorico dato nel 1986: vincere, possibilmente sempre. Il Milan che da qualche anno non è più suo ma che del suo trentennio continua a essere impregnato fin nella sala del caminetto di Milanello, gli ha dedicato photogallery e un breve comunicato, che non poteva far altro che citarlo: “Domani sogneremo altri traguardi, inventeremo altre sfide, cercheremo altre vittorie. Che valgano a realizzare ciò che di buono, di forte, di vero c’è in noi, in tutti noi che abbiamo avuto questa avventura di intrecciare la nostra vita a un sogno che si chiama Milan”.

I tweet del club riassumono l’epopea: “Una storia meravigliosa”, “il presidente della nostra storia. Nel cuore, nella memoria, nell’eternità”. I giocatori che l’hanno portato a essere il più vincente di sempre hanno invaso i social di immagini, di grazie, di commozione. Pippo Inzaghi, uno dei suoi pupilli, ha scritto che “Lei per me rimarrà sempre e solo l’unico, grande presidente”. Alessandro Nesta, quello che nel 2002 comprò all’ultimo secondo del mercato, dopo aver gelato i tifosi con un “non si può” detto alla platea del Meeting di Rimini, limita come sempre le parole, andando all’essenziale: “Non ci sono parole sufficienti per testimoniare stima e gratitudine. Riposa in pace immenso presidente”. Arrigo Sacchi in lacrime, Fabio Capello che lo definisce “genio”, Carlo Ancelotti che pubblica una foto di loro due insieme, in bianco e nero.

Tutti quelli che sono passati da Milanello e se ne sono andati ricordano il Presidente, con la “P” maiuscola, anche quando Berlusconi presidente non lo era più da un pezzo. Il suo più grande lascito non sono le cinque Coppe dei Campioni vinte durante il suo regno, ma la mentalità che ha dato al Milan e, indirettamente, al calcio italiano. Un club, quello fondato nel 1899 dall’inglese Herbert Kilpin, che si è trasformato in un attore perfetto per i più grandi palcoscenici globali, riuscendo a coniugare con ineguagliabile maestria il culto del glorioso passato con la necessità di andare sempre oltre, sempre più su, a prendersi l’ennesimo trofeo. E’ anche per questo che i tifosi milanisti non potranno avere altro presidente all’infuori di lui.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.