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Foggia-Pescara, ossia il lungo rincorrersi di Delio Rossi e Zdenek Zeman

Marco Gaetani

La semifinale dei playoff di Serie C vedrà da una parte i rossoneri guidati da chi fu indicato come il delfino del boemo e i biancazzurri all'ennesima incarnazione zemaniana

I playoff di Serie C sono una sorprendente scatola dei ricordi, uno di quei rimasugli da trasloco che all’improvviso ricapitano sotto gli occhi nel momento in cui le difese emotive sono un po’ più basse del normale e ci si ritrova a pensare a ciò che si è stati, a quanto si è sofferto, a quanto ci si è divertiti. Per molti anni, Delio Rossi è stato indicato come il delfino di Zdenek Zeman. Si fatica ancora, a distanza di decenni, a uscire da questa retorica dell’allievo che sfida il maestro, ma bisogna riconoscere che il destino si è divertito a rimetterli uno contro l’altro quando sembravano ormai due pezzi da museo, memorabilia impolverata. La semifinale dei playoff vedrà da una parte il Pescara, all’ennesima incarnazione zemaniana, reduce dal colpo grosso con l’Entella, e dall’altra il Foggia, che sta vivendo settimane sulle montagne russe: i Satanelli sono riemersi dalle tenebre del 4-1 subito con l’Audace Cerignola, ribaltato con un clamoroso 3-0, e poi hanno annientato le speranze del Crotone. Sono arrivati entrambi in corsa, ruoli che spesso hanno faticato a interpretare durante le rispettive carriere: più pragmatico e meno idealista Rossi, perennemente identico al suo ritratto, invece, Zeman, quasi a voler assecondare quella domanda/affermazione che gli rivolse anni fa Antonello Venditti in una canzone. Perché non cambi mai, con il punto interrogativo da aggiungere o togliere in base alle interpretazioni.

Il primo incontro tra i due risale all’estate del 1986, con Delio già da diverse stagioni in rossonero e Zeman appena approdato a Foggia dopo gli anni ruggenti di Licata. Tecnico rampante e veterano, insieme per parlare di calcio, per insegnare e imparare, per fumare qualche sigaretta insieme con il tramonto sullo sfondo. Il tempo ha rigato il viso di entrambi, le rughe tipiche di chi ha dovuto soffrire per raggiungere ogni obiettivo. Mentre Zdenek si manifestava al mondo come architetto di Zemanlandia all’inizio degli anni Novanta, Delio prendeva appunti alla guida della Primavera foggiana. Da lì in avanti, le due carriere hanno preso a incastrarsi, sovrapponibili per larghi tratti, sempre alla ricerca della bellezza, ognuno a modo proprio.

Rossi iniziava a camminare da solo a Salerno, lì dove Zeman avrebbe predicato più avanti; quindi passava da Foggia e da Pescara, mete predilette di due anime vaganti e vagabonde. Il secondo posto del boemo alla guida della Lazio 1994-95 rimane il punto più alto della parabola zemaniana, numeri alla mano. E allora forse non è un caso che la Roma biancoceleste abbia accolto, dieci anni dopo, proprio Delio Rossi, il primo a potersi concedere il lusso di instaurare un ciclo agli ordini di Claudio Lotito. A tratti bellissima, la Lazio di Rossi, capace di issarsi al terzo posto nel bizzarro campionato post Calciopoli e di mettere in bacheca la Coppa Italia del 2009, ultimo atto di un quadriennio ricco di soddisfazioni. Prima di andare a Roma, aveva lasciato in mano al suo vecchio maestro il Lecce: Zeman era tornato a divertirsi dopo anni di oblio, lanciando i vari Bojinov e Vucinic. Dopo la Lazio, Rossi aveva continuato a sognare a Palermo, dove era iniziata l’avventura italiana di Zeman a metà degli anni Settanta, riuscendo a resistere alle mareggiate di Zamparini fino a una rovinosa sconfitta con l’Udinese che aveva dato il là al classico esonero a tempo: cacciato e richiamato, aveva sognato di lasciare i rosanero come gli era successo a Roma, ma l’Inter di Eto’o e Milito si era dimostrata più forte nella finale dell’Olimpico. Era il Palermo di Pastore e Ilicic, Hernandez e Miccoli. E mentre Delio iniziava a faticare, incappando a Firenze nell’increscioso duello rusticano con Ljajic, Zeman conosceva le meraviglie di Pescara, trampolino di rilancio dopo la sua terza incarnazione foggiana: in rossonero aveva già saggiato le qualità di Lorenzo Insigne, messe al servizio di “Pattolino” Sau, e aveva deciso di portarlo con sé anche in riva all’Adriatico, in un tridente sublime con capitan Sansovini e Ciro Immobile, tutti innescati dalle geometrie di un giovanissimo Verratti. Poi, dopo il deludente ritorno a Roma, per la seconda parentesi in giallorosso, si era scoperto, come l’allievo, stanco e distante da un calcio che continuava a cambiare.

D’un tratto, senza che ce ne fossero i segnali, qualcuno ha tirato fuori dall’armadio una scatola dei ricordi. Delio a Foggia, Zdenek a Pescara: avremmo potuto trovarli a panchine invertite, oppure a Roma, a Palermo, a Salerno, a Lecce. Si giocheranno tutto in due partite, in palio c’è un posto in finale. E una sigaretta da fumare a notte fonda, guardando il mare, pensando a chissà cosa.

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