Un altro Giro

La bicicletta ringiovanisce. Salite e cotte al Giro d'Italia di Antonio Bonini

Marco Pastonesi

"Una cosa in comune io e Eddy Merckx ce l’abbiamo: alla Milano-Sanremo del 1978 dalle parti di Tortona siamo finiti insieme con altri due o tre nella stessa scarpata"

Giro d’Italia 1977. Nona tappa, la Lucca-Pisa, 29 chilometri a cronometro: “La mattina Luciano Pezzi, il nostro direttore sportivo alla Fiorella, ci riunì. Oggi per voi – comandò – è una giornata di riposo. Vi voglio invece vedere domani – aggiunse – davanti in salita sulla Cisa e, ancora meglio, davanti nel finale a Salsomaggiore. Capito? Capito. Indietro in classifica, fui uno dei primi a partire. Non m’impegnai, me la presi comoda, ma mi ero svegliato in uno stato di grazia, le gambe giravano da sé, mi bastava guidare la bici. Quando raggiunsi il corridore scattato due minuti prima, mi sorpresi. Quando raggiunsi quello scattato quattro minuti prima, cominciai a pedalare con una certa convinzione. Quando arrivai al traguardo, avevo stabilito il miglior tempo. E il miglior tempo rimase fino a quando sopraggiunse il norvegese Knut Knudsen. Alla fine fui settimo, ma davanti a Baronchelli, Gimondi e Bitossi, e primo fra i giovani. Ero proprio contento. Se poi fossi partito più deciso, magari forse chissà. Così rimasi a parlare con amici e sportivi, poi risalii in bici e tornai in albergo con la squadra a Lucca. La sera, a cena, Pezzi era arrabbiatissimo. E proprio con me. Innanzitutto perché, da primo dei giovani, sarei dovuto salire sul podio, lui mi aveva cercato dappertutto e non mi aveva trovato. Poi perché avevo disubbidito al suo ordine, quello di andare piano. Domani – dichiarò - se non sei davanti sulla Cisa e, ancora meglio, a Salsomaggiore, fai la valigia, prendi il treno e torni a casa”. Non tornò a casa, Antonio Bonini: “Con i migliori sulla Cisa, con i migliori al traguardo. Ma Pezzi non dimenticò quello che considerava uno sgarbo, un affronto, una disubbidienza, come se avessi voluto fare il fenomeno, il protagonista, il personaggio. Invece ero innocente. La verità è che quel giorno giocavo in casa, le gambe andavano da sé e arrivai settimo. Tant’è che a fine anno non mi rinnovò il contratto e dovetti cercarmi una nuova squadra”.

  


La corsa rosa è un giro di ricordi e sogni, avventure e disavventure, imprese e crisi, storie e passioni. Un altro Giro è la rubrica di Marco Pastonesi che ci accompagnerà strada facendo sulle strade del Giro d'Italia 2023 


   

Nato a Massa Carrara (“Ma per caso, mia madre era andata ad aiutare il fratello, forse troppo, la sera chiamarono la levatrice e nacqui io”), da sempre a Lucca (“Famiglia umile, contadina, terra e bestie”), il primo della famiglia con la passione per la bicicletta (“La prima, una Zapier, dalle iniziali di Zaccagnini Piero, artigiano a Pontedera, poi meccanico anche alla Sammontana e alla Filotex”), la prima corsa andò così così (“L’11 maggio 1968 a Terricciola, nel Pisano, a metà non ne avevo più e mi ritirai”), la prima vittoria se la ricorda benissimo (“Due anni dopo, a Livorno, da solo, l’unico modo per vincere perché la volata non era il mio forte, poi il mazzo di fiori, lo portai a casa e lo regalai a mia madre, era già malata, sarebbe morta poco dopo”), così come ricorda benissimo la vittoria nella tappa di Saint-Vincent al Giro della Valle d’Aosta da dilettante (“Una fuga di quattro o cinque, poi da solo, c’erano anche Martinelli, Visentini, Saronni…”), perfino azzurro (“Alla Corsa della Pace, la Praga-Varsavia-Berlino, una sera si faceva gli sbruffoncelli, si rideva e si scherzava, il ct Mario Ricci ci disse, solennemente, qui c’è poco da scherzare, ragazzi, non siamo in Italia, non siamo al bar”). Poi, nel 1977, a 24 anni, il professionismo.

Due anni, mai da personaggio, eppure Bonini dice che quei due anni sono stati i più belli della sua vita. Tra miti (“Lo stesso Pezzi, aveva diretto Gimondi, avrebbe diretto Pantani, e aveva corso anche con Coppi, per rispetto gli ho sempre dato del lei”) e galantuomini (“Alfredo Martini, anche a lui davo del lei, nel 1978 guidò una mista italiana alla Vuelta, una specie di Nazionale di serie B, c’ero anch’io, ma coinvolto in una ecatombe fui costretto a ritirarmi”), tra giornalisti (“Bruno Raschi della ‘Gazzetta dello Sport’ mi aveva preso in simpatia, una volta mi disse che avevo una certa somiglianza con Marcello Mastroianni e mi fece diventare rosso, un’altra volta scrisse ‘l’elegante Bonini’, a me non sembrava, ma se lo diceva lui…”) e campioni (“Eddy Merckx ci sembrava un dio, non ci fu mai occasione di parlargli, anche perché era circondato dalla folla e protetto da un cordone di uomini del servizio d’ordine, però una cosa in comune ce l’abbiamo, alla Milano-Sanremo del 1978 dalle parti di Tortona siamo finiti insieme con altri due o tre nella stessa scarpata”), tra salite (“Rolle, Pordoi, Falzarego… ma la più dura il muro di Ferentino alla Tirreno-Adriatico, la strada stretta due metri e mezzo, le gomitate per starci dentro, la rampa da fare seduti in sella altrimenti ci si ribaltava”) e cotte (“Sulle Dolomiti, ma quel giorno cadde in crisi anche Gimondi e venne scortato dai gregari, riuscii a stare con loro e arrivare entro il tempo massimo”).

Un paio di volte Bonini sognò di vincere: “Sempre in quel Giro del 1977. La prima volta nella tappa di Vicenza, fuga a due con Foresti, fummo ripresi a 20 metri dall’arrivo. La seconda volta nella tappa finale, quella di Milano, in fuga con Pietro Algeri, Sgalbazzi e lo svizzero Sutter, ripresi ai 200 metri”.

Bonini ha 70 anni, ma non molla: “A piedi, in montagna, qualche volta ancora in bici. Ne ho due. Qualche ‘giratella’, una cinquantina di chilometri e ti senti come un cardellino, 30 anni più giovane, se non nelle gambe, almeno nel cuore”. Ma sì: “Va bene così”.

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