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playoff Nba

Jimmy Butler, gran cattivone dell'Nba: una storia che ormai non regge più

Francesco Gottardi

Suo malgrado, il fuoriclasse dei Miami Heat ha sempre dovuto convivere con l’etichetta dell’antipatico guastafeste. È vero solo ai playoff, per chi se lo trova davanti: altrimenti parliamo di un gran lavoratore, uomo-squadra. Perfino venditore di caffè

Per tutti è il perfetto cattivo della storia. “Non mi dà alcun fastidio”, Jimmy Butler rispondeva ai cronisti, con flemma impeccabile, non più tardi di un anno fa. “Sarò sempre il bad guy. Va bene. I ragazzacci sono i benvenuti nell’organizzazione dei Miami Heat. E io adoro i miei compagni”. Ecco: se per ragazzacci si intende un manipolo di giocatori rognosi, compatti e terribili da affrontare, cestisticamente parlando, allora Butler continua ad avere ragione. Ed è sempre più capobanda del macigno – il proverbiale sassolino non basterebbe – che continua a inceppare gli ingranaggi Nba. Spazzate via le certezze di Antetokounmpo, i sogni dei Knicks. E ora neppure la corazzata Boston se la passa bene, subito sotto nella riedizione della finale di Eastern Conference 2020. Contro la testa di serie numero otto. Contro un fuoriclasse che nei playoff, dal quel 2020 a oggi, ha infilato 13 partite da oltre 35 punti. Cioè come nessuno. Quando nessuno se l’aspettava.

È un po’ il leitmotiv della vita di Butler, spalle al muro ben prima del basket – cacciato di casa a 13 anni, rifugiatosi sul parquet – e capace di farcela ogni volta meglio. Una trama da film per famiglie. Che infatti ha mandato in visibilio la retorica dello sport: Jimmy solo contro il mondo, Jimmy la testa calda. La primadonna, lo spacca-spogliatoio. E poi quel cognome da colpevole designato: è stato il maggiordomo (butler, in inglese)!

A 33 anni, Jimmy è ben poco di tutto ciò. “L’unica cosa che gli dà fastidio è sentirsi chiamare superstar”, dice Markieff Morris, che giocò con lui l’anno scorso. “Perché in campo è un altruista e fuori valorizza compagni e allenatori. Anziché farli silurare come vocifera mezza Nba”. Più delle opinioni contano i fatti. In dodici anni di carriera, Butler ha lavorato soltanto con quattro coach: principalmente Tom Thibodeau e Erik Spoelstra, che l’hanno messo al centro di gruppi squadra duraturi. E capaci di rinnovarsi sempre, come questi Miami Heat. Quello dell’antipatia è un altro falso mito: in una recente indagine di BetOnline, basata sul sentiment dei commenti su Twitter, Butler figura soltanto al 18esimo posto fra i giocatori più odiati della lega. Dietro a James, Morant. Ma anche a Jokic, Embiid e Curry. Poi c’è l’atteggiamento in partita: Butler ha il suo carattere, non le manda mai a dire. In questi playoff però sta perdendo perfino la patina del trash-talker. Irrita soltanto perché segna. Sempre e in tutti modi, o se non lo fa subisce fallo. Eppure sorride.

Così al posto di un solista cattivo, incazzato e stanco, per dirla alla Clint Eastwood, si fa largo un uomo-squadra inesauribile, zen e ben voluto. A suo agio fra la sua gente: qualche giorno fa, alla vigilia della partenza per Boston, Jimmy ha passato l’intera mattinata di fronte al camion-bar che vende il caffè di sua produzione. Chiacchierava con i tifosi, sedeva al tavolo con loro. E parlava di basket. Poi è volato al TD Garden a vincere gara-1, con 35 punti a referto. Ma diamine: la pace viene prima dell’anello. Estetica in frantumi, maggiordomo a chi.

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