Foto Ansa

Sei Nazioni

Il rugby della Nazionale femminile è ostinato e sensibile. Parla Elisa Giordano

Marco Pastonesi

La capitana dell'Italia del rugby ci racconta il Sei Nazioni femmile che inizia. "Il livello si alza continuamente. Significa che, palla in mano, bisogna prendere una decisione in un tempo sempre più breve. E la decisione dovrebbe essere la migliore"

È il capitano della Nazionale italiana di rugby femminile. E così è il simbolo di quel movimento che nel 2006 contava 600 giocatrici e oggi 9mila, la bandiera di quella squadra arrivata nei quarti di finale della Coppa del mondo 2022 (il livello più alto mai raggiunto da qualsiasi Nazionale italiana di rugby), quinta nella graduatoria mondiale (idem), pronta ad affrontare il Sei Nazioni (dal 25 marzo al 29 aprile, il primo incontro domenica 26 marzo alle 16 contro la Francia al Lanfranchi di Parma). Elisa Giordano, 32 anni, veneta di Mirano, laureata in Terapia occupazionale, terza centro del Valsugana campione d’Italia, 60 “caps” – presenze ufficiali – in maglia azzurra.

  

Rugby, eredità o casualità?

“Curiosità, o forse destino. Pattinaggio, basket, pallamano, poi a 19 anni il rugby tanto per provare. Sapevo solo, per sentito dire, che il pallone era ovale. Mi è piaciuto: il pallone, il campo, le compagne, la squadra, l’ambiente, il gioco. Sempre di più. E non ho più smesso”.

 

Dilettantismo puro?

“Con la squadra, sì. In Nazionale, con altre 21 azzurre, ho firmato un contratto con la Federazione. Un contributo economico che non cambia di niente il nostro impegno. Che è passione. Chi studia, chi lavora, quando si va in trasferta chiediamo permessi o prendiamo ferie”.

   

Più quello che ha dato al rugby o che dal rugby ha ricevuto?

“Più quello che ho ricevuto. Quello che sono adesso, nel bello o nel brutto, è tutto dovuto al rugby. Carattere, valori, ideali. Di mio ci ho messo l’impegno, che non è poco: tre allenamenti la settimana, più la palestra, più la partita, più il riposo e il recupero, indispensabili”.

   

Ma il rugby ha ancora quei valori – sostegno, rispetto, disciplina... – o è solo retorica?

“E’ la verità. La squadra, la mia al Valsugana, la mia in Nazionale, è una grande famiglia. Se non lo fosse, non potrebbe esistere. Il rugby ha tutto il contorno che altrove non c’è. Tradizione, spirito, anima. Io credo che tutto questo stia proprio nell’essenza del gioco. Il terzo tempo, per esempio: mettersi a tavola dopo la partita, mangiare e bere, spiegare e raccontare, confidare e ridere, anche con le avversarie e l’arbitro, aiuta a creare un legame autentico e indispensabile. Ma tutte noi sappiamo che il rugby non può, anzi, non deve diventare tutto. E sappiamo che non è per sempre”.

 

E allora, in una sola parola, il rugby è...

“Non c’è una sola parola, ma tante. Il rugby è tanto. Perché è amicizia, fatica, pianti, sorrisi, rinascita, trasformazione, soddisfazione. Non si ha un’idea di quanto sia fino a quando non lo si vive, non lo si gioca, non lo si respira, non lo si vive. E non è necessario essere capitani della Nazionale”.

   

Da capitano, il suo compito?

“Aiutare le mie compagne. Con un gesto, una parola, uno sguardo. Con un esempio, una voglia, un’energia. Ecco: devo creare energie positive. E so che le mie compagne me le restituiranno sotto forma di fiducia. Un compito che non spetta solo al capitano, ma anche alle altre leader, per età, esperienza e personalità. E’ comunque, quello del capitano, un ruolo che dà e toglie energie, che comporta onori e oneri, che comporta anche errori”.

  

Quali?

“Io sbaglio quando cerco di caricarmi di troppe responsabilità”.

 

Più bello il rugby degli uomini o delle donne?

“Il nostro è meno fisico, dunque più tecnico. Il livello si alza continuamente. Significa che, palla in mano, bisogna prendere una decisione in un tempo sempre più breve. E la decisione dovrebbe essere la migliore. Ma se non è la migliore, va bene comunque, e da lì bisogna ripartire”.

   

Pregiudizi verso le rugbiste?

“Ancora, sempre, tanti. Ma ci vuole tempo. Giorno dopo giorno, partita dopo partita, li abbatteremo”.

  

Come sono le rugbiste?

“Ostinate e sensibili”.

 

Sei Nazioni. L’Inghilterra?

“La numero uno al mondo. L’obiettivo, il traguardo, l’esempio: arrivare dove sono loro. Ma ci separano anni luce quanto a movimento, bacino, cultura. E fisicamente sono inarrivabili”.

  

Francia?

“Più forte dell’Italia, ma simile nella dinamicità del gioco. Fra noi, un derby. Ma se la Francia ha la luna storta e l’Italia ci va di cuore, ce la giochiamo. E’ già successo”.

  

Scozia, Irlanda, Galles?

“La Scozia sta crescendo, l’Irlanda ci mette in difficoltà, il Galles è forte ma...”.

 

Ma?

“Ma ci vuole sempre la partita perfetta”.

 

Il campo più bello?

“Il Millennium a Cardiff: gigantesco”.

 

Lo spogliatoio più bello?

“Il nostro, al Valsugana”.

 

I pali più alti?

“Non li guardo mai”.

 

Si è mai chiesta chi glielo faccia fare?

“Spesso. Quando piove, quando nevica, quando fa freddo, quando faccio fatica, in allenamento e in partita, in palestra o nella preparazione atletica, quando dopo 10 placcaggi devo fare l’undicesimo. Ma la risposta è facilissima: lo faccio per me e per le mie compagne”.

Di più su questi argomenti: