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Roy Hodgson ritorna in panchina. Le mille vite e il gran mistero del Bardo del calcio inglese

Giovanni Battistuzzi

L'allenatore subentra a Patrick Viera alla guida del Crystal Palace. A 75 anni non è riuscito a dire di no al suo grande amore calcistico. Lo strano caso di un tecnico che non ha mai vinto niente, ma che è riuscito a crearsi la fama di vincente grazie alle sue capacità "teatrali"

Almeno a suo dire, già quello che era accaduto cinque anni e mezzo fa, nel settembre del 2017, sarebbe potuto benissimo non accadere. “Mi hanno chiamato loro, io certo non mi sono candidato. Per me tutto era finito dopo la conclusione dell’esperienza sulla panchina dell’Inghilterra”. Roy Hodgson aveva preso per buona l’idea di godersi la pensione dopo le critiche subite in seguito all'eliminazione agli ottavi di finale degli Europei del 2016 contro l'Islanda. Quando però il Crystal Palace lo chiamò a sostituire Frank de Boer ci impiegò poche ore a cambiare idea. Accantonò le pantofole si infilò di nuovo la tuta. Ancora ai lati del campo, quarant’anni dopo la prima volta.

  

Si può davvero dire di no al primo grande amore? Roy Hodgson non l’ha fatto. Perché quei colori li ha sentiti sempre suoi. Li aveva vestiti all’inizio degli anni Sessanta per tutta la trafila delle giovanili. Li vedrà ancora da vicino. Il Crystal Palace lo ha richiamato per sostituire Patrick Vieira (che aveva raccimolato 27 punti in 27 giornate, tre soli in più della zona retrocessione), lui ha risposto affermativamente. Settantacinque anni, settantasei ad agosto, non sono poi troppi, sono mai troppi per dire sì al grande amore. Un po’ come Zdenek Zeman. Gente a loro modo di sentimento.

 

E così Roy Hodgson si ritrova ancora in gioco, all’ennesimo subentro a campionato, in corso della sua carriera. È mai stato uno di quelli che ha bisogno della preparazione fisica, di insegnare un metodo, di tempo per mettere a punto innovazioni, schemi, alchimie tattiche. Ha sempre fatto prima i conti con gli uomini, con le loro motivazioni, poi ha scelto il modo migliore per farli rendere al meglio, o quantomeno per fare meno danni possibile. A volte c’è riuscito, altre meno, quasi sempre il minimo indispensabile l’ha portato a casa. Anche per questo la federazione inglese lo scelse per guidare la Nazionale. Per la sua capacità di entrare in sintonia con i giocatori.  

 

C’ha un volto molto inglese Roy Hodgson e una mimica invidiabile. Guy Ritchie più volte ha provato a convincerlo a recitare, lui ha sempre rifiutato con garbo. Ha lo sguardo spesso perso in chissà quali pensieri Roy Hodgson, forse per colpa delle occhiaie o delle guance a crollo di diga, ma “gli occhi sono furbi, scaltri, occhi di chi sai che non puoi fare fesso”. Tim Sherwood descrisse così il suo ex allenatore ai tempi del Blackburn (era il capitano di quella squadra) commentando su Sky la notizia del ritorno in panchina, allora del Watford, di Hodgson nel gennaio 2022.

 

Proprio il Blackburn nel 1997 fu la prima squadra inglese a essere allenata da Roy Hodgson dopo il fallimento al Bristol City nel 1982. Ed è in questi quindici anni passati lontani dal Regno Unito che va ricercato il successo di Roy Hodgson. Un successo che con il calcio ha poco o nulla a che fare.

 

C’aveva ragione Guy Ritchie: Roy Hodgson sarebbe stato perfetto in un film, in qualunque film. Perché è un uomo brillante, con la battuta pronta, che genera un’immediata simpatia, perché è riuscito soprattutto nell’impresa di convincere un intero paese, anzi un intero regno, di essere stato messo alla porta da un movimento calcistico che non ha riconosciuto il suo genio. Lo ha fatto con lo stile e la classe di un Clarke Gable, non certo coi modi di un Mr. Bean, il personaggio di Rowan Atkinson al quale veniva paragonato dai tifosi dell’Inter durante la sua esperienza, nemmeno troppo positiva, tra il novembre del 1995 e il maggio del 1997 (e poi tra maggio e giugno 1999).

 

Roy Hodgson ai tempi dell'Inter (foto Ansa)
      

Roy Hodgson con brillante intelligenza e una sopraffina ironia raccontava della sua quasi obbligata scelta di espatriare in Svezia, del campionato vinto con l’Halmstad che l’anno prima a stento s’era salvato, del bis nel 1979 con una squadra totalmente stravolta. Raccontava dell’esonero al Bristol e del ritorno in Svezia, delle altre due vittorie in Allsvenskan con il Malmö FF, delle coppe in Scandinavia e poi in Svizzera con il Neuchâtel Xamax, del “miracolo” della qualificazione della Nazionale elvetica ai Mondiali del 1994 (davvero un grande successo, considerando che la compagine svizzera mancava da una fase finale dei campionati del mondo dal 1970).

 

Soprattutto dopo quel Mondiale americano, per l’Inghilterra e per il calcio inglese, Roy Hodgson era esotico, tipo il pavé per gli italiani del ciclismo ossia quel qualcosa di distante che ti attrae in modo irrefrenabile. Aveva preso davvero per buona l'idea che fosse genio non capito finito chissà come lontano dalla madrepatria. Un esotismo rafforzato dalla scelta di ignorare le richieste di un paio di grandi club inglesi nell’estate del 1994, restare alla guida della Nazionale e poi scaricarla per andare all’Inter.

 

Fu in quell’esatto momento che Roy Hodgson divenne agli occhi degli appassionati di calcio d’Inghilterra, e soprattutto di molti manager calcistici, un rimpianto, un grande allenatore che il Regno Unito non era riuscito a comprendere. Soprattutto un allenatore che non venne mai davvero messo in discussione.

 

E questo nonostante non abbia mai vinto niente in Inghilterra, negli altri campionati europei nelle coppe continentali. Fallendo inoltre in tutte le competizioni con la Nazionale inglese. Fuori ai quarti di finale agli Europei di Polonia e Ucraina del 2012 e a quelli in Francia del 2016 e non riuscendo nemmeno a qualificarsi agli ottavi ai Mondiali di Brasile 2014. Tutto passato sottotraccia. Roy Hodgson è rimasto nonostante tutto un signor allenatore, uno che il Regno Unito non ha mai capito.

 

Ora torna in panchina, con i suoi modi gentili e la parlantina da navigato autore teatrale. Chapeau, mr. Hodgson.

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