Walter De Raffaele (LaPresse)

dopo 7 anni

Con l'esonero di De Raffaele il basket veneziano ammaina il suo lungo presente

Francesco Gottardi

La delusione degli ultimi risultati costa la panchina all’artefice del ciclo d’oro della Reyer, al timone dal 2016: il suo capolavoro è stato rendere normale una congiuntura straordinaria di pallacanestro

Non si cercava il lieto fine: trofei alla mano, la Reyer Venezia di Walter De Raffaele ne aveva già vissuti quattro. Il nuovo inizio invece giace ancora in un limbo. Come quella palla persa un po’ banale, a metà strada tra Marco Spissu e Mitchell Watt, che domenica all’ultimo secondo ha condannato gli orogranata al sesto ko nelle ultime sette partite. E il coach livornese all’esonero. Dopo sette anni (più altri sei da vice), 403 panchine, il ciclo sportivo più vincente nella storia del club e il più longevo tra quelli attualmente in corso nel basket italiano. Sugli spalti del Taliercio ci si guarda attorno smarriti e non potrebbe essere altrimenti.

Soltanto due settimane fa il mondo Reyer riservava l’ultimo tributo al suo allenatore, nella notte della 400esima presenza. “Qualcosa a cui non pensi quando inizi e ti fa sentire vecchio quando conti i numeri”, riassume lui con arguzia. Il fascino dei record è che congelano il tempo. E mai come in questo lungo presente, la Venezia cestistica si era riscoperta super: veterani sul parquet a cui affezionarsi, cortei trionfali sul Canal Grande e un progetto di costante crescita multidimensionale. Dalle giovanili al settore femminile. Secondo De Raffaele, vincere così tanto e così in fretta (due scudetti, una Europe Cup e una Coppa Italia tra il 2017 e il 2020, dopo 74 anni di digiuno) è stato per certi versi un guaio. La sbornia emotiva carica le aspettative, normalizza l’eccezionale. E stringe i margini di errore: soltanto Milano ha fatto meglio dal 2016 a oggi.

 

Non sono traguardi arrivati per caso. Rispetto alle frenesie del basket moderno, che incentiva i club a fare e disfare ogni anno, la Reyer ha saputo opporre il proprio marchio distintivo: condividere una visione di lungo termine con staff e giocatori. Ma anche il dividendo tecnico di un gruppo d’oro prima o poi si esaurisce. E il verdetto del 2021/22 (eliminazione ai quarti di finale dei playoff) l’aveva evidenziato. Era giunta l’ora di rinnovarsi, verso il 150esimo anniversario della fondazione: in estate salgono di quota gli investimenti, cambiano 9 cestisti su 13, Venezia (9 milioni di euro di budget) si consolida come terza forza economica del campionato dietro Olimpia e Virtus. Oggi però conta più sconfitte che vittorie in stagione, pur rimanendo in corsa su tutti i fronti: qualificata alla Coppa Italia, ben piazzata in Eurocup, a due sole lunghezze dal quinto posto in Serie A (ma ad altrettante dalla zona retrocessione, complice l’equilibrio del torneo). È una ricostruzione ancora in fieri, più complicata del previsto. I brontolii del pubblico non aiutano, la poca serenità all’interno del roster è stata ammessa anche da De Raffaele e si arriva così alla scelta più sofferta. Questa volta, nonostante la storica sinergia con l’allenatore, patron Brugnaro e il presidente Casarin decidono di affidare la Reyer ad interim al suo vice Gianluca Tucci.

 

Qualcosa di simile era accaduto nel febbraio 2016, quando un altro scivolone interno costò la panchina a Charlie Recalcati spalancando le porte al coach del futuro. Allora la scossa funzionò e poco più di dodici mesi dopo sarebbe arrivato il tricolore. Venezia contro Brindisi del veneziano Vitucci, ieri partita fatale, nel febbraio 2020 valeva invece l’ultimo trofeo orogranata: contro ogni pronostico, dopo un altro periodo nero e l’ennesima risalita stoppata soltanto dalla pandemia. “Vivere l’epoca”, raccontava De Raffaele al Foglio esattamente due anni fa. “Cerco di condividere con tutti l’idea di soffermarsi su quel che si ha. Perché poi non ci sarà più, lo sport è ciclico e arriveranno i momenti difficili”. Eccoci. Più di far caso a com’è finita, c’è da ricordarsi tutto il resto. A Venezia è scolpito nell’acqua.
 

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