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1973-2022

Il calcio fuori posto e fuori tempo di Fabian O'Neill

Giovanni Battistuzzi

L'ex giocatore uruguaiano è morto a Natale. Aveva segnato poco, corso meno, non era un belloccio da copertina e neppure uno che avrebbe esaltato i calciofili sudamericanisti odierni. Ma quando toccava la palla e la portava avanti a due all’ora era un bel vedere

Non si pensa mai che si possa morire a Natale. Accade però. Non lo si pensa mai perché si crede, si spera, che anche la morte possa prendersi un giorno libero. A volte accade che arrivi però a Natale, e con la morte giunga lo stupore, la certezza che anche il 25 dicembre, in fondo, è un giorno come un altro. Fabian O’Neill è morto a Natale.

 

A pensarci bene è strano come un giocatore come Fabian O’Neill fosse tanto ricordato qui da noi. Aveva giocato a Cagliari e Perugia con in mezzo un anno e mezzo parecchio infruttuoso alla Juventus. Aveva segnato poco, corso meno, non era uno di quei bellocci da copertina e neppure uno che avrebbe esaltato i calciofili sudamericanisti odierni con la bocca piena di garra charrúa. Era niente di tutto questo Fabian O’Neill, ma quando toccava la palla e la portava avanti a due all’ora senza nemmeno il dono dell’“intensité” sacchiana era un bel vedere. Non gli serviva nemmeno segnare. C’erano cose più importanti dei gol fatti. Ed erano le giocate, i palloni nascosti agli avversari e quelli donati ai compagni, non solo per generosità, soprattutto perché “a fare i gol c’è troppo stress e io lo stress non l’ho mai sopportato”. Diceva questo tra tante altre cose qualche anno fa mentre le bottiglie si svuotavano e la sera romana diventava notte e il fresco veniva tenuto a bada dal vino.

  

Era venuto qualche giorno a Roma per cercare di sfuggire ai suoi pensieri. Sapeva benissimo che non ci sarebbe riuscito, non ci si riesce mai a sfuggire ai pensieri, nemmeno se si ha le gambe e i polmoni di Wout van Aert, nemmeno se si dribbla come lui, con quel tocco che un tempo, con facile battuta, si definiva ubriacante. Lo dicevano a Cagliari e Perugia i tifosi ben sapendo della vita non proprio monacale dell’uruguaiano. Lui diceva, disse quella sera, che avevano ragione loro, che avrebbero dovuto incazzarsi per quello che non faceva in allenamento, non renderlo idolo per quello che gli riusciva con la palla al piede.

  

C’è sempre stato qualcosa di fuori posto, perché fuori tempo, in Fabian O’Neill. Dall’inizio alla fine. Aveva iniziato a calcare i campi di gioco nel momento giusto, quando il suo calcio era adeguato al contesto; iniziò a calciare negli stadi quando ormai era diventato un derelitto storico, qualcosa che esisteva sempre meno, un ricordo antico in un calcio che iniziava a correre, sprintare, esplodere di velocità e atletismo. A tal punto da chiedersi cosa ci facesse nell’undici di Carlo Mazzone, Gian Piero Ventura, Óscar Tabárez e Renzo Ulivieri. 

 

Fu Bora Milutinovic il primo a capirlo. Era il 1993 e l’allenatore serbo, all’epoca ct degli Stati Uniti, disse, al termine dell’amichevole con l’Uruguay, che “quel ragazzino che è entrato nel finale di partita sembra uscito dal Partizan dei miei tempi: fosse nato vent’anni prima poteva fare una carriera spettacolare”.

 

Fabian O’Neill la carriera la chiuse a 29 anni, a Natale i conti con la vita. “Sono sempre stato in difetto, non so perché ma mi sono sentito sempre così. Poi il resto è venuto da sé”.

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