VIVA IL MALANDRO

Giuliano Ferrara

    Q uando feci la mia battuta di caccia nel Mugello, ventitré anni fa, appresso a Di Pietro tra i comunisti costretti da Prodi Veltroni e D'Alema a proteggerlo, la definii “una malandrinata”, e fui cazziato duramente da molti rispettabili piacioni per questo elogio implicito e retorico del male. Ora il malandro, figura tipica dell'antropologia carioca, e il termine viene dall'italiano malandrino, mi viene incontro in un libretto delizioso di Olivier Guez, che fu tra i nostri collaboratori per qualche tempo, e apprezzato, e ora è lanciato nell'empireo delle molte copie vendute, delle tribune illustri internazionali, dei grandi premi francesi, il Renaudot, e del tout Paris inteso come amore della letteratura senza noiosi riscontri intellettualistici. Il saggio di Guez è una magnifica e sensuale lettera d'amore al calcio brasiliano, al Brasile, a Garrincha più che a Pelé, al dribbling soprattutto, e si chiama “Elogio della finta”.

    L'astuto e accuratissimo editore Neri Pozza ha pubblicato in italiano, ben tradotte, le cento pagine dell'edizione Grasset. E' una lettura spettacolare, calda, che dice nell'asciuttezza ma non senza ornamenti più di quello che vuole dire. Il malandro figlio della cultura schiava brasiliana è diverso da come ero io, obeso faticone del garantismo giuridico, allora e oggi: “E' personaggio equivoco della scena carioca, nero o mulatto, furbo, edonista e pigro. Canaglia azzimata, in frac o completo di lino, bastone da passeggio, cilindro, ispira rispetto con il suo abbigliamento e il suo fisico, vita sottile, torace scolpito, è un asso della capoeira. Il malandro pranza nei buoni ristoranti, seduce donne dell'alta società, frequenta cabaret, casinò, ippodromi e prostitute. Nasconde un rasoio sotto la giacca e gira per i viali della capitale, sguardo assassino, baffi lustri, agile come un gatto”. Comunque sia, questo è un elogio della malandrinata che rallegra, istruisce, edifica un mondo in cui, per non offendere i canuzzi, non si può più scrivere pet o animali domestici, e in cui è di rigore oltre la misura del ridicolo dirsi sostenitori del calcio femminile. Per resistere abbiamo bisogno, un bisogno disperato, di una finta e di un suo Bardo.

    Diciamo che è un gran libro sul calcio maschile, e sul dribbling, sui suoi incanti, sulle sue tecniche, sui suoi risvolti di gesto elusivo che consente al centrocampista figlio di schiavi di umiliare il padrone bianco del campo senza toccarlo, senza rendersi colpevole di un oltraggio che una volta si pagava caro. Olivier Guez sa tutto di ciò di cui scrive e dei suoi eroi, il triste esplosivo leggendario Garrincha pluri-riproduttore dal pene immenso, tredici figli o quindici, ma proprio tutto, fino al confine estremo della saggistica letteraria, quando il tutto sapere equivale al tutto inventare. E così inventa una realtà, una storia, un paesaggio brasiliani che mi avevano sempre lasciato perplesso e di stucco per la quantità danzante di allegria su un cumulo per me intollerabile di tristezza da favela. Sono cento pagine di un carnevale in atto, non roba o samba per turisti ma per innamorati, infatti parla d'amore e di tenebra, staccandoti completamente, trattando il lettore come qualcuno da dribblare. Ti stacca dalla pena per il fatto pubblico e per la politica, ti sbatte in faccia l'estate piena e totale del Brasile oppresso e liberato da sé stesso, e mette in musica, partitura eccellente di sole parole, quella cosa, il delirio dei sensi, che forse non c'è più, almeno come modulo calcistico, e forse ci sarà sempre.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.