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Perché ci sono così tanti narratori imbarazzati davanti al calcio?

Antonio Gurrado

L’innaturalità con cui gli autori letterari maneggiano il pallone non è solo endemica, sembra quasi ostentata. Da Elsa Morante a Jonathan Coe tutti i problemi con la narrazione di questo sport

Come Jack O’Malley, trascorro abitualmente il periodo del Mondiale in stato di ebbrezza e nella certezza che vincerà l’Inghilterra, salvo poi pentirmi di entrambe le scelte a cose fatte. Quest’anno, come rito propiziatorio, leggo anche Bournville di Jonathan Coe (Feltrinelli) poiché un’intera sezione del romanzo è dedicata al 1966, anno dell’unica vittoria – benché domestica e contestata, con gol fantasma in finale – degli inventori del calcio. Dicono tutti che i libri di Coe sono spaccati della società britannica, fotografie fedelissime di momenti precisi della storia. Speriamo di no. Altrimenti vuol dire che all’epoca, in famiglia, gli inglesi si scambiavano dialoghi pieni di “La partita si è conclusa con un pareggio” e “Stanno per battere da un momento all’altro”, espressioni più degne di una telecronaca di RaiSport che di un tinello middle class in un sobborgo di Birmingham.

   

Certo, un po’ di colpa sarà anche del traduttore. Lo stesso che a un certo punto scrive “il manager italiano”, lasciando pensare più a Franco Tatò che al commissario tecnico dell’Italia, Mondino Fabbri; oppure rivela che dopo la finale Bobby Moore solleva davanti alla folla esultante un misterioso “trofeo d’oro Jules Rimet”, che dal contesto si evince essere la Coppa Rimet. Sarà parente di chi, in una vecchia traduzione di “Selvaggi e sentimentali” di Javier Marías, aveva scritto che il Real Madrid aveva vinto cinque volte di fila la Coppa Europa, quella cioè che gli spagnoli chiamano Copa de Europa ma noi italiani Coppa dei Campioni.

 

Non è però solo questione di traduttori che non fanno lo sforzo di documentarsi su Wikipedia per acquisire i rudimenti del linguaggio specialistico pedatorio, come invece farebbero per gli hedge fund o per la fisica quantistica. In Coe ravviso lo stesso disagio nel parlare di calcio che mezzo secolo fa caratterizzava Elsa Morante, quando ne La storia se ne usciva con questa goffa perifrasi: “Tommaso, che si appassionava alle partite di calcio, e favoriva la squadra della Lazio, rincasò più avvilito che mai: quasi non bastasse tutto il resto, era successo un caso dell’altro mondo: la Tirrenia aveva eliminato la Lazio. E così, questa era esclusa dalla finale, favorendo la rivale odiata, la Roma”. Notare che l’autrice ci tiene a spiegarci che la Roma è rivale della Lazio ma non quale finale fosse in palio.

 

L’innaturalità con cui gli autori letterari maneggiano il calcio non è solo endemica, sembra quasi ostentata. Un po’ come se, costretti a includere negli affreschi narrativi la passione più diffusa in occidente, se ne vergognassero e cercassero di prendere le distanze utilizzando le lunghissime pinze del vocabolario approssimativo o del cliché telecronistico. Di modo tale che nei romanzi al calcio risulti precluso il realismo, col suo bel parlare schietto ma nitido, uniformato stilisticamente al resto della narrazione.

 

Accade insomma col calcio lo stesso che col sesso. In entrambi i casi, si tratta di piaceri fini a sé stessi che scatenano ingiustificate ondate di sentimento, dotati di una terminologia specifica difficilmente esportabile fuori contesto, superficialmente noti a tutti ma capiti da ben pochi, scrutati nel dettaglio con una certa volgarità, seguiti da numerosissimi appassionati che spesso però guardano più di quanto riescano a praticare. Calcio e sesso sono troppo universali perché sia facile collocarne il racconto all’interno della storia di un quidam senza dare al lettore un’impressione di déjà-vu, e troppo privati per non suscitare nell’autore verecondo il dubbio di star spingendosi troppo in là con gli aspetti anatomici o tenico-tattici; soprattutto, calcio e sesso hanno la fatale peculiarità che entrambi, non appena si cerca di nobilitarli in bella prosa, suonano immancabilmente ridicoli. Per questo bisognerebbe istituire un premio che, sulla scorta del Bad Sex Award, laurei ogni anno campione il peggior narratore di una scena di calcio. Il vincitore di quest’anno ce l’abbiamo già, e non è Daniele Adani.

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