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Olanda-Stati Uniti: passaporti e pittori, cappelli e castori

Gino Cervi

La nazionale olandese e quella americana sono due multinazionali del pallone. Quando la globalizzazione stava in testa e non nei piedi

Oggi al Mondiale si gioca il primo ottavo di finale, Olanda-Usa. Quanti olandesi hanno contribuito a “fare” gli Stati Uniti d’America? Ovvero quando sangue nederlandese scorre tuttora nel calderone genetico a stelle-e-strisce? Impossibile a dirlo. Diciamo pure, per metterla giù in modo ecumenico che i nordamericani sono “cugini” di mezzo mondo; più terra-terra, che la loro ontologica “bastardezza” è la dimostrazione che la storia e la natura dell’uomo va avanti, e va avanti forse meglio, se si ha una certa pratica consuetudine con l’ibridazione.

    

Una pur frettolosa lista di americani famosi che hanno radici olandesi non può non annoverare i Roosevelt, e il capostipite Claes, che ancora si firmava Rosenvelt e che nel 1652 acquistò quarantotto acri in quella che adesso è la Midtown di Manhattan, più o meno intorno all’Empire State Building; da quella pianta, per li rami, discesero ben due presidenti degli Stati Uniti, il 26esimo e il 32esimo: Theodore Roosevelt (1858-1919) e, cugino di quinto grado del precedente, Franklin Delano Roosevelt (1882-1945). Ma non furono gli unici presidenti “olandesi”. Già nel 1837 venne eletto alla più alta carica di stato Martin van Buren (1782-1862): figlio di un oste che gestiva una locanda a Kinderhook, sulla strada per Albany – già Fort Orange, uno dei primi insediamenti coloniali dei Nuovi Paesi Bassi, colonia olandese insediatasi lungo il fiume Hudson dal 1614 al 1664 – van Buren fu l’unico presidente della storia degli Stati Uniti d’America a non essere madrelingua inglese. In casa il signor Abraham van Buren e la sua consorte, Maria Hoes van Alen, parlavano solo neerlandese.

   

Nel corso dell’Ottocento un’altra famiglia di discendenza olandese, i Vanderbilt, era padrona di mezza New York: il fondatore di quell’immensa ricchezza, basata sui trasporti commerciali marittimi e ferroviari, fu Cornelius (1794-1877), detto Il Commodoro, discendente da un contadino olandese originario del villaggio di De Bilt, nella provincia di Utrecht. A Cornelius si deve la costruzione nel 1871 del Gran Central Depot, poi Grand Central Terminal, la grande stazione ferroviaria di New York. Una sua donazione da un milione di dollari diede vita nel 1873 all’Università che porta tuttora il suo nome. Olandesi erano gli antenati di Henry Fonda – benché una leggenda dica che i suoi antenati arrivarono da Genova nei Paesi Bassi, nel corso del XV secolo – che s’insediarono nella prima emigrazione in Nord America e “fondarono” un villaggio che porta il loro stesso cognome: Fonda si trova nella contea di Montgomery, nello Stato di New York. E da Henry Fonda deriva tutta una celebre dinastia cinematografica, da Jane a Peter a Bridget. Per restare nel mondo del cinema, Lee van Cleef, ovvero il “cattivo” per eccellenza nei film di Sergio Leone aveva antenati olandesi, e addirittura era nato a Rotterdam nel 1904, ma poi naturalizzato statunitense è il pittore Willem de Kooning. Ad Amsterdam sono nati invece, rispettivamente nel 1953 e nel 1955 - ma poi cresciuti in California - Alex e Eddie van Halen, fondatori dell’indimenticabile formazione heavy metal che porta il loro stesso nome.

  

Per tornare alla Coppa del mondo e a Olanda-Usa, anche Sergiño Dest, nato ad Almere, in Olanda, ha scelto gli Stati Uniti. Per complicare ulteriormente la sua identità cultura e linguistica, Sergiño di secondo nome fa addirittura Gianni, e non Johnny o Johan. Gianni, come Gianni Rivera, e non come Johan Cruijff. Il primo, di nome, è invece un… destino. Ma non nel senso di diminutivo del cognome – Dest, in effetti, non è un marcantonio: 171 cm di altezza – ma perché di mestiere fa il terzino fluidificante, come scrivono i boomers come me, e, fino a una quindicina di anni fa, chi fluidificava più di tutti, nell’esercizio di quella specifica professione, era brasiliano e si chiamava Sérgio Claudio dos Santos, meglio noto come Serginho. Milanista come lui, però mancino.

  

Tornando ai geni, Dest, di madre olandese e di padre statunitense, benché originario del Suriname – come peraltro fior di campioni della storia del calcio orange: Gullit, Rijkaard, Seedorf… – oltre che cinque giocatori dell’attuale rosa dell’Olanda ai Mondiali: Van Dijk, Dumfries, Bergwiijn, Simon e Malacia - ha dunque scelto, pur avendo il doppio passaporto, di rappresentare i colori degli Stati Uniti. Ma si trova in buona compagnia. Gli Stati Uniti sono una specie di internazionale del football: Christian Pulisic, attaccante del Chelsea, ha un nonno paterno croato, anzi dalmata, per la precisione di Ulbo (in croato Olib); Giovanni Reyna, centrocampista del Borussia Dortmund, è figlio di Claudio Reyna, già capitano degli Usa, ha nonni argentini e portoghesi; Timothy Weah, attaccante del Lille, è figlio di George Weah, grande centravanti del Milan e oggi presidente della Liberia; Antonee Robinson, terzino del Fulham, è nato in Inghilterra, ma da genitori statunitensi; Jesus Ferreira, attaccante del FC Dallas, è colombiano naturalizzato statunitense; DeAndre Yedlin, difensore dell’Inter Miami, ha un padre per metà afroamericano e per metà nativo americano e una madre lettone e di religione ebrea; Ethan Horvath, portiere del Luton Town, come dice chiaro il cognome, ha un padre ungherese; Kellyn Acosta, centrocampista del Los Angeles FC, ha una nonna paterna giapponese anche se il suo cognome gli deriva da un nonno messicano; Cristian Roldan, centrocampista dei Seattle Sounders, ha origini salvadoregne e guatemalteche; Sean Johnson, portiere del New York FC, ha genitori di origini giamaicane; e Shaquell Moore, difensore del Nashville, ha nonni del Trinidad.

   

In Olanda-Usa, Yunus Musah, centrocampista del Valencia, nato a New York, da genitori ghanese, si troverà di fronte due giocatori olandesi di origini ghanesi: Memphis Depay, attaccante del Barcellona, e Jeremy Frimpong, difensore del Bayer Leverkusen; mentre un po’ di sangue ghanese scorre anche nelle vene di Cody Gakpo, ala del Psv Eindhoven, figlio di togolesi ma di nonni ghanesi. Ma non possiamo tuttavia dimenticare che Musah ha tirato i suoi primi calci da ragazzino vestendo la maglia rossostellata del Giorgione di Castelfranco Veneto. Che, vorrei essere smentito, credo sia l’unica squadra di calcio al mondo che porta il nome di un pittore; oltre che, per tornare, a girare il mondo il soprannome di un centravanti famoso per aver trascinato la Lazio a vincere il suo primo scudetto (1973-74) e per aver, indossando la maglia azzurra in una partita di Coppa del mondo, Italia-Haiti (15 giugno 1974), mandò a quel paese in Mondovisione il ct, Ferruccio Valcareggi. Ovvero Giorgione Chinaglia, esempio vivente di globalizzazione calcistica ante litteram; nato a Carrara, cresciuto in Galles, osannato a Tor di Quinto, coperto d’oro ai Cosmos di New York, cantato da Rino Gaetano, inseguito dai tribunali e deceduto, dopo una vita corsa sempre ai limiti di velocità, a Naples, che non è Napoli – da cui prende il nome – ma sta in Florida.

  

Ma per chiudere questa storia con un libro, perché sarebbe poi questo l’obiettivo, scrivere di Mondiale senza scrivere troppo di calcio, e con un altro maestro della pittura, il consiglio è quello di andarsi a leggere Il cappello di Vermeer, di Timothy Brook (Einaudi 2015), un saggio, come recita il sottotitolo, che parla del Seicento e della nascita del mondo globalizzato, e in particolare il capitolo che da il titolo all’intero libro. Intorno alla descrizione del celebre quadro del grande pittore olanedese Jan Vermeer, Ufficiale e ragazza che ride (1658) e di un sontuoso cappello di feltro che indossa l’ufficiale, parte la narrazione dei traffici di pelli di castoro che i mercanti olandesi, in particolare, gestivano dal Nordamerica in Europa. La bonifica di molte terre selvagge nel Nord Europa a vantaggio dell’agricoltura aveva distrutto l’habitat ideale per i castori e il prezzo fuori mercato delle pelli siberiane avevano spinto a cercare nuove risorse oltre Atlantico, per disporre dei ricercati copricapi ricavati dalla particolare concia di quelle pelli: "Il cappelli di castoro tornarono in auge e la moda, che dapprima attecchì tra i mercanti, nell’arco di pochi decenni si estese all’élite militare e alla corte. Ben presto chiunque ambisse alla distinzione sociale dovette possedere un beaver – come veniva chiamato il cappello di castoro -, il cui prezzo, nel primo decennio del Seicento, era dieci volte più alto di quello di un copricapo realizzato con feltro di lana, operando una distinzione nel mercato dei cappelli tra coloro che potevano o non potevano permettersi un beaver. (Un effetto di questa differenza di prezzo fu l’emergere di un florido mercato dell’usato rivolto a quanti non potevano acquistare un beaver, ma non volevano rassegnarsi a un klapmuts [fatto di feltro di lana che tendeva ad afflosciarsi poco dopo l’uso]. I governi europei imposero al mercato dell’usato regole rigide, temendo, non senza motivo, il diffondersi delle malattie trasmesse dai pidocchi)”.

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