Foto Ap, via LaPresse

qatar 2022 - facce da mondiale

Steven Berghuis, ossia l'importanza dell'ottimismo

Giovanni Battistuzzi

Il trequartista dell'Ajax sarà al centro del progetto tattico di Louis van Gaal perché ha due caratteristiche importanti tanto quanto il talento: senso pratico e ottimismo

Si può essere indispensabili anche non essendo i migliori, essendo ben distanti dall’essere campioni, fenomeni o quanto meno grandissimi giocatori. Steven Berghuis non fa parte di queste categorie, eppure in Qatar Louis van Gaal difficilmente farà a meno di lui.

  

È mica scarso Steven Berghuis, tutt’altro, ha piedi buoni, senso della posizione, visione di gioco. Tutte caratteristiche importanti, necessarie per giocare a calcio, ma nessuna dosata in maniera superiore alle altre e soprattutto agli altri. Un buon giocatore, nulla di più, eppure traboccante di due caratteristiche che non si vedono a primo impatto, anzi una non si vede affatto: senso pratico e ottimismo. La prima, merce rara nella sua zona di campo, la trequarti, lo porta a fare ciò che va fatto, nel modo in cui va fatto, in maniera più semplice possibile, fuggendo dalla tendenza a strafare, l’onanismo dei trequartisti.

     

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Steven Berghuis è forse l’ultimo avamposto del calcio olandese prima del totaalvoetbal, ossia l’evoluzione neederlese del pallone danubiano, ma con qualche tulipano in più e un po’ di pizzi e merletti in meno. È uno di quelli che giocano all’antica, che pensano che il pallone è meglio farlo girare sì, ma che uno deve attaccare o difendere e se uno deve attaccare è meglio che pensi solo a quello. Lui lo fa con l’idea che il calcio è corale sino a un certo punto e che quando si ha l’occasione di tirare è meglio farlo, che a passarsi troppo la palla si finisce per perderla e che è meglio un tocco in meno che uno in più. Pochi orpelli quindi, parecchia sostanza.

   

C’avrebbe mai scommesso nessuno che uno così, uno come Steven Berghuis, potesse arrivare all’Ajax. C’è invece arrivato dopo essere stato amatissimo a Rotterdam, al Feyenoord, che è cosa mai apprezzata ad Admsterdam. C’è arrivato sorridendo, come nulla fosse, perché per lui c’era nessun problema in tutto questo. Siamo professionisti, disse, spegnendo qualsiasi polemica. Facciamo del nostro meglio, continuò. Se si fa bene, se si vince, ogni cosa sarà perdonata, chiuse con rassicurante franchezza.

   

S’è fatto voler bene. Ha segnato, ha fatto segnare, s’è adattato a gioco, ambiente e pure all’“essere lanciere”, se ancora ha un significato. E lo ha fatto con una tranquillità spiazzante, perché, parole sue, “se pensi al peggio, giochi peggio; devi pensare bene, positivo, per giocare al meglio delle tue possibilità. L’ottimismo è contagioso e ti porta a risultati che nessuno schema ti porterà mai”. Dissero che Erik ten Hag, allenatore l’anno scorso all’Ajax ora al Manchester United, non la prese bene, si risentì un po’, ma gli diede ragione e ora utilizzi in spogliatoio suppergiù le stesse parole.

   

È un concetto per niente nuovo. Louis van Gaal è da inizio anni Novanta che cerca di instillarlo ai suoi giocatori. A volte c’è riuscito, a volte no. Le sue vittorie e le sue sconfitte spesso sono state determinate dalla capacità dei suoi calciatori di comprendere e condividere cosa c’era sotto a questo concetto: ossia fiducia reciproca e totale in tutti, aderenza quasi fideistica a un sistema che non era solo di gioco e una sorta di filosofia calcistica e di vita (e anche del suo profeta, cioè lui stesso). E così van Gaal quando è ritornato sulla panchina della Nazionale dei Paesi Bassi (gruppo A con Qatar, Ecuador e Senegal, gruppo facilmente superabile) ha preso Steven Berghuis e lo ha messo al centro del suo progetto di calcio. Perché non sempre servono i fenomeni per vincere, anche se non guastano, a volte sono più importanti i divulgatori di un’idea. Forse.