Il Foglio sportivo

In viaggio all'Europeo con capitan Datome

Umberto Zapelloni

Oltre al basket c'è di più. “La curiosità, i libri e la musica mi aiutano a essere un giocatore migliore”. Intervista al capitano della Nazionale azzurra

Se Gigi Datome non giocasse a basket non avrebbe problemi a trovare un impiego alternativo. Potrebbe condurre una rubrica di libri in radio o in tv. Consigliare ai lettori quali serie seguire, quali album ascoltare. Suonare la chitarra accompagnando Patti Smith in concerto come ha fatto quest’estate al Castello Sforzesco. Guadagnerebbe meno di quanto gli passa l’Olimpia, ma non si annoierebbe di certo. Gigi Datome non è soltanto il capitano della nazionale di basket che ha appena cominciato il suo viaggio nel campionato europeo. È quasi la guida spirituale di un movimento che continua a combattere per essere considerato il secondo sport italiano dietro al calcio.

   

La sua è una vita piena, pienissima, da quando a dicembre Chiara ha messo al mondo Gaia. Ma lui la pensa come Mourinho che un giorno disse: “Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio". Per Gigi chi sa solo di basket non solo non sa niente di basket, ma proprio non sa nulla. “La musica, i libri mi aiutano a giocare meglio a basket, ne sono assolutamente convinto. Mi è sempre piaciuto leggere e mischiare i generi, andare a scoprire nuovi autori come rileggere i classici. Per questo Europeo mi sono messo sul comodino ‘Orgoglio e pregiudizio’, che non avevo mai letto prima e ‘Quando tutto è detto’, il romanzo d’esordio di Anne Griffin”. Con Gigi è difficile dire tutto. Dietro la sua barba c’è sempre qualche sorpresa.

 

Gigi Datome è una di quelle persone che hanno il potere, come canta Patti Smith nella canzone che lui ha accompagnato con la chitarra sul palco. “People have the power” l’hanno cantata in tutto il mondo, è una canzone che ispira a combattere per cause diverse. Una canzone del 1988 che ancora oggi ha una forza pazzesca. Un po’ come Datome che è nato un anno prima e, a pochi mesi dai 35, riesce ancora a fare la differenza come nella serie finale per lo scudetto con l’Olimpia. “Non so se questa potrebbe essere la mia last dance in azzurro, ma dopo 20 anni e più di 300 partite potrebbe anche essere. Non so, non ho deciso nulla. Io non sono neppure lontanamente un Pau Gasol, un Nowitzki o un Parker, campioni talmente grandi che a 35/36 anni facevano la differenza. Non essendo come loro spero che la Nazionale trovi altri giocatori che siano migliori di me e l’Italia possa fare a meno di me. Poi dire di no alla Nazionale è sempre dura, ma mi rendo conto che possa essere la mia ultima estate azzurra. Certo chiudere con una medaglia…”. Sarebbe il modo di pareggiare (o quasi) il conto con due grandi amici come Tamberi e Paltrinieri: “Loro ormai sono delle icone sportive e mi emoziona solo il fatto di conoscerli. Quando vedo un amico come loro gareggiare e vincere è un’emozione diversa”.

 

Gigi si alza la mattina, posticipa la sveglia di 10 minuti, poi fa colazione con Chiara. Magari cambia pure un pannolino (“So cambiarli. Me la cavo, ma la mamma è più brava…”). Non perde tempo a tagliarsi la barba, ma chissà che per una medaglia non decida di rasarsi. Accende un podcast (Morning di Francesco Costa), legge la rassegna stampa del Corsera, scorre i Social. Gli piace tenersi informato. Digitalmente. I libri, invece, li preferisce cartacei (“Mi piace sottolinearli”). “Sono molto curioso e quando una cosa mi appassiona la approfondisco e mi faccio trascinare. Lo sport, la musica, la lettura sono mondi diversi però sono convinto che arricchiscano una persona. Sono convinto che la musica e la lettura mi aiutino a essere un giocatore migliore, che la lettura mi aiuti a essere un musicista migliore perché ci si influenza in qualsiasi campo e alla fine tutto questo arricchisce la persona. Vivo grandi momenti di fissazione di un personaggio, uno scrittore, un cantante. Di Patti Smith non ascolto solo la musica, leggo i libri e la trovo una grandissima scrittrice, su Instagram fa dei post che sono quasi poesia”.

 

“La vita non si limita a quel rettangolo della pallacanestro che è il mio mondo, la mia vita, la mia passione, ma c’è tanto altro. Ho avuto la possibilità di viaggiare, di vivere in America, in Turchia, di conoscere così tante persone diverse da me, ho sempre cercato di apprendere il più possibile”. Non solo basket. Ma basket prima di tutto perché è comunque il suo lavoro, la cosa che sa fare meglio (“Con la chitarra sono pessimo ve lo assicuro ma Patti mi ha fatto sentire a mio agio”). Un basket che in qualche modo vorrebbe aiutare. Da anni ripete che si gioca troppo: “Ognuno cerca di coltivare il proprio orticello. Tutti cercano di giocare più partite possibili, la Nazionale e i club. In mezzo ci siamo noi giocatori che siamo obbligati a scegliere perché giocarle tutte al massimo non è possibile. Dovremmo sederci attorno a un tavolo e fare tutti un passino indietro, decidendo un numero di partite che ci permettano di performare sempre al massimo. Io sarei per aumentare la qualità e ridurre la quantità. Non vorrei si arrivasse come in Nba dove si giocano tante partite inguardabili che poi a noi non arrivano, ma che io ho vissuto personalmente”. Un discorso quasi da dirigente. Il dopo basket di Datome sarà ancora nel basket, ma non come allenatore. Il presidente Petrucci in più di un’occasione ha buttato lì l’idea: “Potrebbe essere Gigi il mio successore”. “Mi fa piacere che pensi a me, ma non lo so. Adesso sinceramente non ci penso, mi vedo ancora come giocatore anche se mi vedo nel basket perché con l’esperienza che ho maturato penso di poter dare una mano, un punto di vista diverso”. Quando arriverà lo stop lo dirà il corpo. Anche Gigi, come Ibra, ci sono mattine che si sente tutto rotto. “Capita anche a me, le mattine dopo le partite è il momento peggiore, è sempre traumatico rimettersi in azione. Poi il corpo si attiva, vai in palestra e riparti, ma quando ti svegli… Oggi il recupero è diverso e poi giochiamo tantissimo. È importate mangiare bene, riposare bene, fare le terapie. Oggi passo molto più tempo in palestra pesi per lavorare alla prevenzione piuttosto che stare in campo a fare mille tiri extra. Oggi prendersi cura del corpo è la cosa più importate e all’Olimpia abbiamo tutti gli strumenti per farlo”. Quando la stanchezza non lo abbandonerà più, capirà che è arrivato il momento. E allora deciderà.

 

Con Chiara potrebbe anche decidere di restare a Milano: “Sono anni che vivo in una Metropoli tra Roma, l’America, Istanbul e Milano e mi redo conto che ti offre tutto. Milano è una capitale europea dove succedono tante cose, è un hub di interrelazioni, di tanti mondi e quindi potrebbe anche diventare la nostra città”. C’è ancora tempo (non troppo) per decidere.

 

Per ora lo aspettano altre maglie da mettere poi nella sua collezione. Sono lì, ordinate cronologicamente in un armadio a cominciare dalla prima della Santa Croce Olbia, la società di papà Sergio. “È partito tutto da lì e non avrei mai pensato di fare questo percorso bellissimo… quella dei Celtics è molto romantica e aver visto lì il nome della mia famiglia è stato qualcosa di forte; quella del Fenerbahçe con cui ho vinto l’Eurolega”. Quelle della Nazionale sono una marea. Una bianca e una azzurra per ogni stagione. “Ho solo maglie mie, maglie che rappresentano i miei sacrifici, sono vissute, sudate, hanno un valore unico che la maglia di nessun altro campione eguaglierebbe”. Per Gigi le maglie hanno un valore particolare. “Ho sempre un rito, prima di indossarla guardo la scritta con il mio nome. La prima volta che mi diedero una maglia con il mio nome ho fatto le foto e le ho mandate a casa. Si giocano così tante partite che si rischia di perdere l’importanza, invece il rito di leggere il mio cognome sulla maglia mi ricorda che è una giornata speciale”. L’augurio è di viverne una specialissima in quest’avventura europea. Tredici titoli di club negli ultimi 8 anni (5 con Obradovic, 3 con Messina, gente tosta) mettono comunque appetito in azzurro. “Giocando con coraggio, attributi e determinazione possiamo fare qualcosa di grande. Abbiamo dei limiti di taglia e di talento, ma siamo un gruppo che ha imparato a vincere. Fontecchio oggi è il miglior giocatore italiano, Melli nel suo ruolo è uno dei migliori a livello europeo. Io sono qui a dare il cambio a Fonte. Ho capito quanto si può essere importanti e farsi trovare pronto quando arrivano le partite importanti. Come mi hanno insegnato a Boston: ognuno deve cercare di essere la stella nel suo ruolo. Essere il migliore nei minuti in campo”. Parole da capitano.
 

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