Habemus Paolo

Maldini rimane alla guida del Milan. Ormai è una specie di Orson Welles del calcio

Giuseppe Pastore

I dettagli del contratto appena rinnovato sono ancora avvolti nella nebbia. Ma alla fine di questo giugno tribolato i tifosi possono tirare un sospiro di sollievo: Paolo resta 

Habemus Paolo. E al Milan è mancato solo il guizzo finale: annunciare il rinnovo mentre una vecchia pendola sta battendo i rintocchi della mezzanotte, come Phileas Fogg quando completa sul filo di lana il Giro del Mondo in 80 giorni presentandosi al circolo all'ultimo secondo. Non si può avere tutto dalla vita: e del resto anche in questa trattativa logorante, stiracchiata a uso del circo mediatico oltre ogni umana sopportazione, ci sarà una parte che ha vinto e un'altra che ha perso.

Al momento i dettagli del nuovo contratto sono ancora avvolti nella nebbia, così come i contorni di tutte le altre sotto-trame del faticosissimo giugno milanista: non sappiamo con certezza che ruolo in commedia abbia recitato il cosiddetto nuovo proprietario Gerry Cardinale, né che effetto abbia avuto questo tiremmolla sui mancati arrivi di Botman e Renato Sanches, in realtà non sappiamo nemmeno quanto fossero vicini Botman e Sanches; in definitiva, sul Milan sappiamo molto poco. E quel che pensiamo di sapere è quasi sempre inesatto, filtrato, tirato per la giacchetta, conseguenza del retaggio delle abitudini comunicative del calcio italiano, specialmente d'estate – una tradizione ripercorsa magnificamente, per esempio, dall'Inter che negli ultimi trenta giorni ha rovesciato le depressioni di maggio con un'infornata di nuovi acquisti in barba alla mordacchia del bilancio. Bisogna farsene una ragione: a questo Milan con gli occhiali da sole comunicare non preme granché, soprattutto con uno scudetto all'occhiello. Non a torto, molti parlano di strategia comunicativa fallimentare, di danno d'immagine incalcolabile, di figuraccia planetaria: la sensazione è che di tutto questo al Milan attuale non freghi granché, per una serie di ragioni. Innanzitutto il carisma e sintomatico mistero di Maldini, a cui interessa avere contatti diretti solo con pochissimi giornalisti, sicuramente molto meno di quanti ne abbiano Marotta e Ausilio; poi il modus operandi di Elliott che non ritiene di avere tempo da perdere in spiegazioni su una squadra di calcio che, piaccia o no ai milanisti, vive sempre come la periferia del proprio impero. In questa querelle lunga e taciturna come una partita a scacchi tra due maestri scandinavi, in cui le due parti in causa hanno affilato i coltelli e sguainato gli avvocati come avviene in molte grandi aziende molto meno lunatiche di un club calcistico, ha fatto più rumore degli altri il silenzio della new entry Cardinale: forse più imbarazzato che complice, forse semplicemente intento a raccogliere oltre oceano il denaro che serve per completare l'acquisto, a meno che le mille lenzuola che compongono questo cerebrale feuilleton estivo, da sollevare una per una, non celino chissà quali altre verità nascoste.

Enjoy the silence. Per certi versi modello gestionale da studiare con attenzione, il Milan persiste nella sua sfacciata diversità, che consiste anche nel rinnovare il contratto ai due maggiori dirigenti dell'area sportiva all'ultimo secondo utile sorvolando sulle spiegazioni. Da oltre due anni prosegue la diatriba tra l'anima più aristocratica e orgogliosa della storia del Milan e la spietata logica manageriale di un Fondo che è abituato a non fare molti prigionieri. Il silenzio non nasconde bensì amplifica queste frizioni tra la “vecchia” proprietà (l'uso delle virgolette non è casuale) e il suo direttore tecnico che vorrebbe tanto ambire alla carica di dittatore tecnico – un dittatore illuminato ci mancherebbe, è pur sempre un Maldini – e quindi puntare al Sole, alla Luna, alla Champions. Una volta tanto, il discorso economico tanto caro a Elliott resta in secondo piano: questa è stata una faccenda di potere, preteso e difeso, ambito e negato, con la miccia non a caso innescata a una manciata di ore da uno scudetto clamoroso che ha indotto il suo artefice a scoprire le carte attraverso l'intervista alla Gazzetta dello Sport. Segnale di debolezza? Segnale di arroganza? Segnale semplicemente di maldinismo?

 

Quando parliamo di Milan, sempre a Maldini torniamo. Gli piaccia o no – ma sospettiamo che gli piaccia – in questa breve ma intensissima carriera da dirigente Paolo Maldini va ponendosi come una specie di Orson Welles del calcio: baciato dalla grazia, titanico per costituzione, gli riesce tutto e vuole darlo a vedere senza la prudenza tipica dei mezzofondisti del pallone. Sente di essere condannato alla grandezza: è l'unico che in questi tempi di vacche magre riesce a essere credibile evocando la possibilità di lottare per la Champions League. Rivendicare il proprio status alzando la voce, rendendosi poco gradevole, invadendo i campi altrui? “Non posso farci niente, è la mia natura”, gigioneggiava appunto Orson Welles in Rapporto Confidenziale, raccontando la favola della rana e dello scorpione. Anche se come chiosa finale di questo mese da lunghi coltelli che ha scoperchiato il vaso di Pandora all'ingresso della sede del club campione d'Italia, calza a pennello la celebre battuta del Terzo uomo: “In Italia per trent'anni sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo Da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in 500 anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L'orologio a cucù”.

 

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