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il foglio sportivo

Stiamo aspettando l'Africa

Moris Gasparri

Il camerunense Embiid stella Nba e il ciclista Girmay nuovi simboli di un continente che sta cambiado. Anche nello sport

Nella geo-filosofia dell’agonismo sportivo il ruolo dell’Africa è da sempre marginale. Lo sport è un prodotto dello spirito europeo, anticamente nato e sviluppatosi nell’Europa mediterranea, ricomparso sempre in terra europea ma più a nord, nell’isola britannica, per poi da li espandersi seguendo le direttrici della progressiva colonizzazione inglese del mondo (con l’aggiunta fondamentale del genio creativo francese a inventare le grandi competizioni mondiali). Anche oggi regna un’antica divisione gerarchica: i produttori principali dello spettacolo sportivo globale restano ancorati in occidente, mentre il ruolo delle nazioni asiatiche e africane è quello di fungere da sterminata platea televisiva e digitale delle varie Premier League, Champions League e Nba di turno, con il contentino in alcuni casi di tifare per i propri connazionali più talentuosi – dall’eroe sudcoreano Son a quello camerunense Embiid – che riescono a varcare con successo le soglie di questi mondi apparentemente irraggiungibili. 

 

Se l’Asia può però consolarsi con la leadership negli esports e nelle discipline di retaggio imperiale opportunamente e sapientemente rielaborate in forma di identità nazionale, dal cricket al tennistavolo al badminton, l’Africa a livello sportivo non ha mai conosciuto una sua vera centralità globale, con la parziale eccezione dell’egemonia kenyana nelle corse di resistenza o del Sudafrica nel rugby. Il sintomo più evidente di questa perifericità è la sostanziale indifferenza con cui alle latitudini europee viene ancora oggi vissuta una manifestazione di fondamentale importanza nell’economia simbolica di un miliardo e oltre di abitanti del pianeta, la Coppa d’Africa (che ora si chiama Coppa delle Nazioni Africane), unita al malcelato fastidio di dirigenti, allenatori e tifosi di squadre di club costrette a perdere alcuni giocatori per almeno un mese

 

Uno sguardo maggiormente curioso e attento ai cambiamenti globali coglie invece dei segni interessanti. Lo sport africano si è storicamente sviluppato attorno a due elementi fondamentali, fra loro intrecciati: da un lato, incarnare il volto della decolonizzazione, permettendo alle nuove identità nazionali di affermarsi e rendersi visibili a livello internazionale, con un uso politico del calcio molto forte da parte di diversi regimi, aspetto su cui resta fondamentale Le football et l’Afrique, libro curato da Paul Dietschy e David Kemo-Keimbou, colpevolmente non tradotto in italiano. Dall’altro, il legame ombelicale tra i grandi successi sportivi e il riscatto dalla povertà, la grande forza desiderante alla base delle biografie degli atleti africani di successo, seguendo in questo un modello già sudamericano, ma con tonalità esistenziali più forti. Le rappresentazioni più celebri restano la vittoria di Abebe Bikila nella maratona olimpica di Roma 1960, pastore scalzo che opera il riscatto storico della propria nazione in casa dei vecchi colonizzatori, e, sempre in Italia, il cammino del Camerun ai Mondiali del 1990, con Roger Milla e compagni giunti a pochi passi da uno storico accesso in semifinale, apripista dei successivi sogni calcistici nigeriani, senegalesi e ghanesi. I Mondiali sudafricani furono un coronamento di questo percorso storico, a cui ha fatto però seguito una stagnazione nei risultati internazionali del calcio africano. 

 

I fatti recenti ci parlano di una nuova fase, non confinata solo al calcio, in cui sta emergendo un nuovo paradigma: non più e non solo la povertà da fuggire e usare come motore del desiderio agonistico, bensì gli investimenti e i denari come leve di un nuovo futuro dello sport africano, in linea con i cambiamenti generali del continente. Una delle più grandi voci intellettuali africane della nostra epoca, Calestous Juma, economista e politologo keniano morto nel 2017 dopo aver lungamente insegnato a Harvard, ci ha lasciato in eredità libri e idee importanti per pensare il rapporto tra l’Africa, l’innovazione tecnologica e lo sviluppo economico, superando i retaggi coloniali e immaginando una diversa traiettoria di sviluppo. Non è quindi banale nell’ottica della nostra analisi che un suo intervento pubblico del 2016 si aprisse con una menzione emozionata delle cinque medaglie olimpiche appena conquistate ai Giochi di Rio nel taekwondo da atleti africani, viste e interpretate come simbolo di questi cambiamenti, tra cui quella di Cheikh Cissé, primo oro olimpico di sempre per la Costa d’Avorio.

 

La crescita economica del continente africano è uno dei grandi fatti della nostra epoca, ma non va immaginata in maniera lineare e omogenea: oasi e sacche di forte sviluppo – pensiamo al mondo delle startup digitali, alcune divenute “unicorni”, il termine tecnico che indica le realtà in grado di superare il miliardo di dollari di valutazione – convivono e convivranno a lungo dentro un contesto ancora dominato da conflitti militari, emergenze militari, corruzione, mancata transizione demografica (nell’ultimo decennio si è ridotto il tasso di povertà, ma i poveri in numero assoluto sono aumentati rispetto ai decenni passati per via dell’aumento della popolazione). La recente Coppa d’Africa in Camerun è stata un grande specchio di questa complessità. Contro ogni scetticismo, si è giocato e sono state rispettate le procedure di sicurezza dettate dalla pandemia, aspetti non scontati alla vigilia, ma in stadi semivuoti perché potevano accedervi solo le persone vaccinate, ristretta minoranza per via dell’indisponibilità dei vaccini su larga scala.

 

Ci sono tuttavia tre grandi figurazioni di questo nuovo paradigma, che fino a pochi anni fa sarebbero sembrate impensabili. Il primo è rappresentato dalla nascita della Basketball Africa League, lega direttamente finanziata e sostenuta dall’Nba in partnership con la Fiba, nata sotto l’impulso di dirigenti di origine africana come Masai Ujiri, attuale Gm dei Toronto Raptors, e partecipata da un socio di nome… Barack Obama. Partita lo scorso anno con dodici franchigie in rappresentanza di dodici stati e un torneo concentrato in due settimane per gli impedimenti della pandemia,  è da poco iniziata la seconda edizione, ampliata nel numero di partite e finalmente con la presenza del pubblico. L’Africa è la nuova frontiera di espansione della lega americana, dopo quella europea e quella cinese (e l’ultima sul pianeta Terra, prima di passare all’esplorazione di nuove galassie, ma Space Jam non è stato girato invano). In Senegal è nata anche un’academy direttamente gestita dall’Nba, e già oggi sono quindici gli atleti formati in Africa che giocano nel principale campionato professionistico mondiale, guidati dal già citato Joel Embiid.

 

La seconda figurazione è la costruzione del nuovo stadio di ultima generazione inaugurato lo scorso febbraio nei pressi di Dakar, poche settimane dopo il successo del Senegal nella Coppa d’Africa. Un investimento di oltre duecento milioni di euro, che segnala una volontà inedita di progettualità e strutture. Resta fissato l’orizzonte: il più grande fatto sportivo del XXI secolo sarà l’eventuale vittoria di una nazionale africana nella Coppa del Mondo. 

  

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La terza e ultima figurazione ha il volto di Biniam Girmay, ciclista eritreo capace di vincere lo scorso 27 marzo la Gand-Wevelgem, prima assoluta per l’Africa in una delle grandi classiche del nord del ciclismo, sport europeo per eccellenza. La vittoria di Girmay non viene dal nulla, ma da una cultura sportiva locale che ha trasformato Asmara in una Copenhagen degli altipiani del Corno d’Africa (attendiamo un futuro reportage in loco da Giovanni Battistuzzi), creando un bacino di produzione naturale di talenti come avviene da decenni per la corsa negli altipiani di Kenya ed Etiopia. Ma la vittoria viene anche dagli investimenti dell’Uci per il centro di formazione in Sudafrica, in cui è cresciuto lo stesso Girmay, e si collega a notizie come l’assegnazione dei Mondiali di ciclismo del 2026 al Ruanda, nazione oggi sulla mappa del mondo grazie allo sport e non alla guerra civile, di cui abbiamo testimonianza anche con le sponsorizzazioni di Arsenal e Psg (nonostante critiche di sportwashing al presidente Kagame). Sulla falsariga dell’Uci, la Fina ha annunciato prossimi investimenti in Africa per sviluppare talenti nel nuoto, e anche nel tennis a livello giovanile c’è grande fermento. Il secondo fatto sportivo più grande del XXI secolo? Un Roger Federer africano.

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