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Il Foglio sportivo

Altro che Africa, quante gaffe nel pallone d'Europa

Giuseppe Pastore

Arbitri che fischiano prima, sorteggi sbagliati, stadi riempiti con strategie folli: tutto questo succede qui

Da due settimane è in corso la Coppa d’Africa più odiata e osteggiata di sempre. Quest’edizione era già slittata due volte: la seconda per il Covid, la prima perché non si può giocare a calcio in Camerun in estate, durante la stagione delle piogge. Con lei ce l’hanno moltissimi presidenti, allenatori e semplici tifosi che non si capacitano che campioni del calibro di Salah, Mané, Mahrez, Kessié o Koulibaly, profumatamente pagati dai rispettivi club, debbano andare a metà stagione nel Continente Nero a rischiare le gambe e magari persino la salute per le loro sciocche e irrilevanti Nazionali, come ebbe a dire in tv Fabio Capello qualche settimana fa (“Non si sa mai come tornano i giocatori quando vanno in Africa, rischiano di prendere la malaria!”). Del resto l’Africa raggruppa appena un miliardo e 300 milioni di terrestri: una platea trascurabile per chi è abituato a spettacoli di portata planetaria come Milan-Spezia o Napoli-Salernitana. Perciò, di fronte alle comprensibili ironie che riversiamo quotidianamente su stadi deserti, campi spelacchiati, errori goffi come quello del portiere della Costa D’Avorio all’ultima azione contro la Sierra Leone, arbitraggi bizzarri come quello del signor Sikazwe che in Tunisia-Mali – forse vittima di una qualche stregoneria! – ha fischiato la fine venti secondi prima del 90’, lasciateci marcare alcune differenze a vantaggio di noialtri cittadini civilizzati del Primo Mondo.


Un arbitro che calpesta la norma del vantaggio in maniera grottesca, fischiando un fallo al limite dell’area con tempi di reazione alla Marcell Jacobs dopo aver lasciato correre molto, anzi tutto, in novantanove azioni su cento, com’è del resto prassi del calcio moderno in cui gli assistenti sono istruiti, in nome dello spettacolo, a non sbandierare mai nemmeno sui fuorigioco di un metro e mezzo, sottoponendo attaccanti e difensori a scatti del tutto non necessari. Poi, travolto dal senso di colpa (chissà se a squadre invertite avrebbe avvertito lo stesso impulso), chiede scusa, si fa strapazzare come un orsacchiotto di peluche dai calciatori vittime del suo abbaglio, più imbarazzati che infuriati, forse addirittura piange, viene trattato a guisa di un panda dai giornali mossi a compassione. È successo a Milano, non a Yaoundé.


Un impianto da 80mila posti che però per imposizione governativa (comunicata via telefono dal presidente del Consiglio al capo della Federazione come in certe cancellerie dello Zimbabwe) può essere riempito al massimo da 5mila persone, esattamente come indicato per altri stadi da 10mila o 15mila posti, in allegro spregio alle proporzioni aritmetiche che si studiano in seconda media. Tuttavia, nel suddetto stadio da 80 mila posti, i 5mila presenti non vengono distribuiti sull'ampia superficie a disposizione allo scopo di garantire il distanziamento come da rigide disposizioni sanitarie, ma sono scientificamente ammassati nel primo anello, affinché il loro tifo giunga più nitido e caloroso ai giocatori in campo. È successo – ancora – a Milano, non a Ouagadougou.
Un glorioso stadio da 80mila posti (lo stesso di prima), che nel recente passato ha ospitato finali di tornei continentali sia di club (2016) che di Nazionali (2021), che viene spremuto come un tubetto di maionese con otto partite in 18 giorni, tre delle quali finite ai supplementari. Questo weekend, per la prima volta nella storia del campionato, su quel manto erboso allo stremo delle forze, ideale nascondiglio per talpe, si svolgeranno addirittura due partite nella stessa giornata. Succederà – di nuovo – a Milano, non a Tananarive.


Un laborioso protocollo che, per evitare un altro diluvio di rinvii decisi dalle Asl, impone di scendere in campo alle squadre che abbiano almeno 17 negativi al Covid su 25 giocatori in rosa. Ma lo impone a partire da lunedì 17 gennaio, così chi è impegnato sabato 15 (nello stesso turno di campionato) è costretto a tenere conto della vecchia regola che obbligava a giocare le squadre anche con soli 13 giocatori disponibili e in buona sostanza se lo prende in saccoccia, come denunciato dall’allenatore della squadra che è stata costretta a schierare quattro ragazzini della Primavera e invece di perdere 3-0 a tavolino ha perso 3-0 sul campo. È successo a Salerno, non a Dar es Salaam.


Il dirigente di una federazione internazionale che, durante il sorteggio degli ottavi di finale della coppa più importante, trasmesso in diretta in tutto il mondo, combina un pasticcio omerico con le palline. E poi dà puerilmente la colpa a “un problema tecnico con il software di un fornitore esterno”, come nei peggiori uffici comunali di Addis Abeba quando non funziona più il toner della stampante, e tre ore dopo è costretto a inscenare nuovamente il teatrino. È successo in Svizzera, non in Etiopia.


Dodici grandi società provenienti dai paesi che occupano le prime tre posizioni del ranking continentale, tutte variamente indebitate, che organizzano un golpe notturno per cambiare per sempre la storia del calcio. Ma spengono i telefoni, non si preoccupano di approntare una comunicazione minimamente adeguata al grande evento e nemmeno di presentare una bozza di regolamento. Il blitz fallisce tra le pernacchie nelle 48 ore successive, grazie a qualche sommossa popolare abilmente sobillata dai governi nazionali, come in certe repubbliche delle banane con l'inflazione al duecento per cento. È successo in Europa, non in Africa

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