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il foglio sportivo

I sogni contagiosi di Fausto Gresini

Cristiano Cavina

Dietro la favola di Nadia ed Enea che pronti via hanno sbancato la MotoGp in Qatar

Fra Imola e Rimini ci sta tutta la Romagna – avanzano di sopra Dozza e Toscanella e sotto Cattolica e il Montefeltro, caro al sommo Poeta (oriundo fiorentino, ma naturalizzato Ravennate, tiè); ma con buona approssimazione, sta tutta lì dentro.

Imola fa di cognome Provincia di Bologna, ma è un cognome acquisito dopo nozze forzate, roba burocratica, non bisogna farsi ingannare: i confini amministrativi non coincidono sempre con quelli storici; Imola è sempre stata Romagna, una Gibilterra dritta in faccia all’emilia (pardon, maiuscolo; Emilia. Anzi, Emilia - , come c’è scritto nella Costituzione. Dopo il trattino ci siamo noi).

Quando l’epica sportiva si fonde con quella dell’esperienza umana, viene automatico tirare fuori la favola; sconosciuti che battono i favoriti, una squadra che non si qualifica per i Mondiali e poi vince l’Europeo; svantaggiati che in barba ai bookmaker fanno saltare il banco; eroine ed eroi che trovano la strada per risorgere dal dolore e dagli inferni in cui i casi della vita li hanno spinti. Questa roba qua. Preferisco non entrarci, perché credo sia più di questo, più ingavagnato e bello, anche se gli ingredienti ci sarebbero tutti...

Re colpiti a tradimento, regine che ne prendono il posto, giovani cavalieri senza macchia in sella; l’incipit sarebbe fantastico. C'erano una volta un’infermiera di Imola che nel 1986 incontrò un pilota di motori (non sto a rispiegare che in Romagna lo sport nazionale è nominato per sineddoche, la parte per il tutto; non motocicletta ma motore). Ma lasciamo stare la favola, che mi sa che non sarei neanche all’altezza di raccontarla. Pesco nel mio, che magari è meno bello, ma almeno è davvero ciò che sento qua nella pancia.

Conobbi Fausto Gresini nel 1991, al Bar A.R.C.I di Casola Valsenio. Era venuto a festeggiarci il primo Mondiale vinto dal suo compagno di scuderia, il sedicenne Loris Capirossi from Borgo Rivola. A Casola c’era la sede del primo Fan Club di Capirossi, il Loris daj de gas; la sede ufficiale era l’ufficio Poste e Telegrafi, perché il fondatore era Gigi il Postino, che faceva il giro delle consegne Casola Sud Ovest e contado.

La conoscenza con Fausto Gresini durò un minuto netto, tempo di farci la foto insieme; lui, io, e i tre miei amici con cui suonavamo nell’unico gruppo Rock Progressive Cattolico di Romagna (e infatti poi fallimmo, le premesse erano sbagliate; non avevamo pubblico tra la fiera popolazione comunista repubblicana anticlericale in cui eravamo nati). Avevamo sedici anni, lui era più basso di noi, anche perché piegato da anni in sella e dal peso della gloria; era un pluricampione del mondo (1985 e 1987, con un Garelli bianco che pareva un siluro della prima guerra mondiale montato su ruote; il secondo titolo fece quasi filotto, 11 su 12 gare, una la mancò perché forò che era davanti a tutti di, non so, tipo mezza giornata). Insomma, era uno famoso, famoso per davvero, il primo famoso che mi capitò di incontrare; la seconda fu la zia di D’Alema che però non vale, abitava in via Primo Maggio dietro al cementista e lui veniva a trovarla pochissimo.

Mi sembrava strano perché non si comportava come credevo si dovessero comportare quelli famosi, o come pensavo mi sarei comportato io quando lo sarei diventato con il gruppo Rock/Progressive Cattolico (aspetta e spera, va là). Era tranquillo, gentile, sorridente: aveva anche quel ciuffo sulla fronte, cioè, sembrava davvero un normale imolese di quelli che incontravi il sabato sera alle Acque Minerali (per i non autoctoni, le Acque Minerali non sono solo una curva del circuito di Imola, ma un disco dancing con baracchine per bere, lì di fianco). Insomma, pensavo che uno famoso, con diritto, un po' avrebbe fatto lo sborone; un bisinino, anche solo. Lui no. Tranquillo. Sorridente. Forse un po’ con la testa altrove, ma gentilissimo. Ho scoperto anni e anni dopo che certi esseri umani, mirabili, non se la tirano anche se potrebbero; non gli serve e non gli viene in mente, sono quieti e sorridenti nel loro talento. Non hanno niente da dimostrare, e stanno già pensando a cosa dovranno fare. È gente che sogna forte, quella.

La signora Nadia Padovani non l’ho mai conosciuta di persona, invece. L’ho vista per la prima volta lassù, sul podio del Qatar, di fianco a un burdèl di Rimini (li chiamano così, là; noi verso Imola diciamo tabàc) che è nato l’anno che io andai a vedere il secondo concerto dei Pearl Jam a Milano, e avevo già la sua età (s’invecchia facendoci caso ogni tanto e dimenticandosi tra una volta e l'altra di averci fatto caso, così è sempre una sorpresa; due maroni!). A volte mi chiedo da dove spuntano tutti ‘sti nostri burdèl/tabàc che corrono in motore. Non sembra neanche che abbiano un domicilio, che siano usciti da un reparto di maternità, deve esserci qualcosa nelle qualità organolettiche di questa terra, che tipo li seminano. Dieci o quindici ettari spariti (nascosti – pardon – per chi non biascica la lingua madre) da qualche parte, tipo tra Lagone e Ghetto Masere, o forse ci sono degli orti mimetizzati tra quelli dei pensionati lungo gli argini, un po’ in ogni paese o paesone (non dico città, perché suona troppo complicato per le nostre, sa di troppo serio). Si, forse è così. Orticelli, qua e là, che ci coltivano piloti di motore innaffiandoli con miscela e olio lubrificante, e quando ghiaccia mettono i caschi sui germogli e le saponette paraginocchi sui rami.

C’è qualcosa di più bello, non dico sportivamente, ma umanamente, di vedere Nadia e Enea insieme lassù, su quel podio di quel lontano paese? Lontano non solo nello spazio; penso alla strada che ha portato Nadia Padovani fin lì, una strada che non è fatta di asfalto e ghiaia, o una tratta aerea; un viaggio che parte dal 1986, passa per fidanzamento, matrimonio, figli, due maschi prima, figlie, due bambine poi, Fausto che vince e che perde intanto, e a volte perde purtroppo di più che delle gare; il povero Kato e il Simoncelli “Sic” Marco da Coriano – li abbiamo in gloria gli dei, e poi questi anni, il 22 febbraio del 2021 che ti chiamano dall'ospedale e te credi sia il primario del Maggiore che ti dice che oggi sta meglio, e invece è peggio, è vicino alla fine, che arriva il giorno dopo, la perdita, le perdite maledette di questi anni, il Garelli motosilurante di fianco alla bara, la tuta azzurra Team Italia, il casco MDS, i due ragazzi e le bambine senza il padre, l’azienda senza di lui, forse meglio fermarsi, ma però Fausto aveva questo sogno qua, di tornare in MotoGp, e poi ci sono settanta dipendenti, con famiglia, e vendere sembra una cosa così brutta, che dite, continuiamo noi?

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La Ducati GP21, un burdèl di Rimini che fa Bastianini ma lo chiamano Bestia, sulla scocca che sembra a me o ha lo stesso colore azzurro della tuta team Italia che cavalcava il Garelli negli anni ottanta? Dai che manca un giro, la Ktm è vicina, dai, dai dunque; il dolore è sempre lì, ma, il tempo... chissà, chi può dirlo, magari l’anima c’ha una candela Magneti Marelli all’avviamento che se s’incaglia, se la strofini un po’ ritorna a fare scintille. La morte ci dà la caccia uno per uno, ha infinite trappole maledette, ci prende sempre, ma sta a vedere che... Ed eccoli lassù, che non si capisce se piangono o ridono, è tutto mischiato, la meraviglia e la pena, presente e passato.

Guarda un po', la prima donna nella storia a vincere una gara MotoGp è una signora di Imola. Team Manager. Gresini Racing. Poi dice che i romagnoli sono dei patacca. Si sente anche dal di qua che qualcuno da qualche parte se la sta ridendo, tutto soddisfatto. E io che mi dicevo, ma come fa a essere così tranquillo? Va là che era un bel sborone; sognava così bene che aveva sogni contagiosi. Più di qualsiasi malattia.

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