Pier Paolo Pasolini con Gianni Morandi in una partita del  26 gennaio del 1974 (foto Ansa)

Il Foglio sportivo

Quando Pasolini si ingrifava per un pallone

Diego Guido

Si era innamorato di Biavati, funambolo del suo Bologna e del suo doppio passo. Il tifo era liberatorio. Sky gli dedica un documentario con Giorgio Porrà: “Era necessario metterne a fuoco l’unicità”

Del rapporto tra Pasolini e il calcio si sapeva giusto l’indispensabile. Spettatore appassionato, amante del Bologna, buon giocatore. Un esterno alto, di corsa e di fantasia – spesso, velleitaria – sui campetti di periferia. Nulla più di questa manciata di appunti superficiali. Una superficialità non lontana da quella di cui mi ha parlato Giorgio Porrà – autore e volto di “Pier Paolo Pasolini, L’artista del doppio passo”, da venerdì su Sky Sport Calcio e da sabato su Sky Arte e in streaming su Now – spiegandomi l'utilità di raccontare oggi, a cento anni dalla nascita, il Pasolini calciofilo e calciatore. “Pasolini è sempre attuale. È diventato un’hashtag, un volto buono per murales, per t-shirt. Le formule preconfezionate di genio eretico, di icona scandalosa l’hanno avvolto nel simbolismo sterile dei Che Guevara, dei Maradona. Sono le mitizzazioni semplificate di chi non l’ha visto, conosciuto, compreso. Era dunque necessario spiegarlo, metterne a fuoco l’unicità, le contraddizioni selvagge”.

Lo speciale si inserisce tra le monografie de L’uomo della Domenica, il programma che rinverdisce l’eredità lasciata da Lo sciagurato Egidio, primo ambizioso tentativo di Porrà di offrire un racconto del calcio contaminato di musica, cinema, letteratura, arte. “Pasolini definiva il calcio un istinto visionario, un linguaggio in sé. Lo categorizzava secondo riferimenti letterari. Diceva che il calcio italiano era giocato in prosa estetizzante, quello brasiliano in poesia”. C'è un’impronta inconfondibile nello stile narrativo di Porrà, nel suo copioso flusso di coppie di sostantivi e aggettivi, sorretti da reticoli di virgole. Un ondeggiare armonico sopra la singolare cadenza della sua voce che mette in fila concetti e descrizioni. Uno stile che mantiene anche mentre parliamo al telefono.

Pasolini insieme con attori e calciatori in occasione di un una partita di calcio negli anni Settanta (foto Ansa) 
   

Tra i cliché che circondano Pasolini c’è quello d’essere stato un precursore. D’aver previsto fenomeni sociali molto prima che prendessero forma. “In alcune cose ci ha preso, in altre no”, mi dice Giorgio, a sottolineare l’impronta di verità che ha lo speciale. “Aveva previsto che il fattore economico avrebbe minato l’essenza del gioco. Così come aveva previsto lo spezzatino di partite, il calciomercato perenne, il calciatore come azienda di se stesso”. A fare da contraltare alle sue previsioni illuminate stavano alcuni sfoggi da reazionario. “Non amava il progresso”, mi spiega, “e questo era un limite del suo pensiero”. Torna la struttura sintattica di Porrà, quando mi spiega che anche di fronte al calcio era “assetato di passato, di armonie perdute, di essenze primordiali”. Coerentemente con le sue posizioni anti-femministe, addirittura anti-abortiste, Pasolini si diceva del tutto contrario al calcio femminile “lo definiva, spettacolo scimmiesco e sgradevole mimetismo. Oggi sono certo non lo direbbe più, eppure la sua forza spiazzante ci ha lasciato anche questo”.

Delle improvvise inversioni logiche di Pasolini ne dava un’acuta spiegazione Alberto Moravia: “Ragionare è anonimo, contraddirsi è personale”. E di personale Pasolini amava produrne in quantità. “All’Olimpico andava solo in curva ripudiando la tribuna stampa”, mi racconta Giorgio, “perché diceva che il tifo è liberatorio. Mai in tribuna stampa, però poi in tv ci andava eccome”. E altre e altre ancora. Il culto del povero e dei contesti popolani dei campi di terra battuta ma anche una scrittura alto borghese sul calcio che snobbava linguaggi da bar sport per sfoggiare invece una maestosa potenza poetica.

Nel titolo della puntata trova non a caso spazio il doppio passo. “Se ingrifava solo a sentire un pallone battere”, dice Ninetto Davoli nei primi minuti, tratto da un’intervista di parecchi anni fa. Ma il culto di Pasolini per il doppio passo va oltre la sua infantile attrazione per il giocare a pallone. “Era questione barocca”, dice Giorgio. “Se ne era innamorato guardandolo fare ad Amedeo Biavati, funambolo del suo Bologna. Era un gesto eversivo, contro la convenzione del gioco. Portava con se l’utopia di riuscire a eseguirlo”. L’estetica del gesto tecnico strettamente collegata all’estetica del corpo, anch’essa approfondita da Porrà. “Aveva il culto del corpo. Lo considerava un’entità sacra, mistica. Per questo non beveva e non fumava”. C’è una fotografia in bianco e nero su cui a un certo punto indugia il montaggio di Sky. Pasolini in uno spogliatoio mentre si allaccia gli scarpini. Il petto nudo, un sorriso leggero sotto gli spigoli degli zigomi, i capelli ben pettinati. Mi dice Giorgio che teneva moltissimo al suo aspetto anche in campo e che ammetteva “il narcisismo è un dato clinico a cui un artista non sfugge”.

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