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Il Foglio sportivo

Viaggio all'origine dei Giochi olimpici invernali

Moris Gasparri

Dalla Norvegia ai surfer americani la rivoluzione degli sport che animeranno Pechino 2022

Indagare il senso storico e filosofico delle Olimpiadi estive è facile: compimento del progetto rinascimentale di recupero dell’antico; festa globale che celebra l’universalità delle nazioni; deposito di gloria popolare e mitologie collettive. Indagare quello delle Olimpiadi invernali è invece un esercizio più difficile: parente minore del rito estivo sul piano simbolico e fattuale, la cui prima edizione disputata a Chamonix in Francia nel 1924 venne ufficialmente riconosciuta in quanto tale dal Cio solamente ex post; preludio dell’appuntamento maggiore fino al 1992; espressione agonistica che rimanda a una visione eurocentrica e non globale del mondo, di un’Europa oltretutto franco-carolingia e scandinava.

La diversità da approfondire è però un’altra. I fondamenti agonistici del rito olimpico estivo sono inconcussi: l’atletica regina delle gare, il nuoto che segue a non troppa distanza, tutto il resto a fare da contorno più o meno rilevante di questi due cardini. I fondamenti di quello invernale sono invece alle prese con una grande rivoluzione trasformativa, che merita di essere analizzata a fondo. Per farlo, dobbiamo esplorarla nella sua profondità mitologica, in particolare ispirandoci a quella mitologia degli elementi da cui il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt trasse verso la fine degli anni Quaranta del secolo scorso la sua affascinante visione della storia universale, organizzata attorno allo scontro fra terra e mare. Un identico scontro è in atto nel mondo degli sport invernali.

 

Partiamo dal principio terrestre. La Norvegia è la nazione che ha dato lingua e forme pratiche agli sport invernali: ski fu in origine il nome delle protesi di legno necessarie alle antiche genti scandinave per solcare le nevi, e quindi la terra, di cui si conservano reperti archeologici plurimillenari. Come per la scherma e la sua derivazione dalla pratica del duello, l’agonismo sportivo sciistico è solo una breve tappa dentro una storia di civiltà molto più lunga e grande, che dalla mitologia alle vicende dell’umanità cacciatrice diventerà poi mezzo di trasporto, anche per le situazioni di guerra, motore dello scambio di comunicazioni, infine strumento ludico e agonistico non solo per gli spostamenti tra i boschi, ma anche per scivolare lungo i pendii montani: sarà infatti un norvegese, Sondre Norheim, a inventare nel 1843 il telemark e le prime gare antesignane dello sci alpino. Non sorprende come la Norvegia, nonostante una taglia demografica molto piccola, abbia chiuso al primo posto nel medagliere finale dei Giochi di Pyeongchang del 2018, e sia la grande favorita anche per questi Giochi.

Lo stesso ragionamento vale per un’altra nazione, l’Olanda, anche lei tra le grandi protagoniste del medagliere invernale grazie al più grande caso di cannibalismo sportivo di una disciplina olimpica, il pattinaggio di velocità. Anche in questo caso la lingua è rivelativa: la parola skating deriva da schaats, il nome dei primi pattini con le lamine costruite con ossa animali, che le antiche popolazioni tribali che abitavano le terre dell’attuale Olanda utilizzavano già quasi tre millenni orsono; pattini che nel Medioevo e nella prima modernità sarebbero poi diventati i mezzi di trasporto privilegiati delle classi contadine, utili a poter arrivare dalle campagne nei mercati cittadini riducendo i tempi di percorrenza, sempre in una dimensione terrestre quindi, anche se senza montagne. Al dominio di Norvegia e Olanda negli sport invernali si adatta alla perfezione la risposta che Roland Barthes, nel suo testo teatrale sullo sport poi divenuto un libretto di successo, formulò alla domanda su cosa fosse uno “sport nazionale” (ispirandosi al Canada, altra nazione da sempre protagonista delle Olimpiadi invernali): uno sport “che nasce dalla materia stessa di una nazione, cioè dal suolo e dal clima”.

Il secondo elemento, quello acquatico-marino, ha invece una geografia molto diversa da quella scandinava e alpina. È la comunità americana dei surfer, tanto californiana quanto della East Coast, ad aver rivoluzionato in maniera radicale il mondo degli sport invernali negli ultimi vent’anni. In perfetta consonanza con lo spirito pragmatico che sta alla base di molti sport a stelle e strisce, fu la necessità di tenersi allenati anche nei periodi in cui non poter praticare in mare a far nascere prima la versione urbana della tavola da surf, lo skateboard, poi per gemmazione quella montana, lo snowboard (in origine chiamato non a caso “snurfer”). Gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso furono il tempo di una fioritura artigianale e creativa inizialmente guidata proprio dai surfer e dal loro spirito anarchico e libertino, fatta di progettazione di materiali e promozione della disciplina, con una trasformazione radicale, anche in senso antropologico, rispetto alle austere tradizioni del mondo vallivo alpino e scandinavo. È sorprendente la velocità del cambiamento: lo snowboard venne introdotto nel programma olimpico invernale ai Giochi di Nagano nel 1998, tra polemiche e scetticismi di ogni sorta anche dello stesso mondo della tavola, e a distanza di quasi venticinque anni ne è divenuto, soprattutto grazie alle discipline acrobatiche, l’attrazione principale a livello televisivo e social, soprattutto nel pubblico americano, che di ogni Olimpiade rappresenta la platea principale (e quindi il principale finanziatore dello spettacolo olimpico).

Cosa succede però alla regola barthesiana e alla dialettica tra gli elementi nell’epoca del riscaldamento globale? Il ghiaccio che si discioglie, che nelle cronache norvegesi diventa l’amarezza per la drastica riduzione dei giorni innevati, o per gli olandesi l’Elfstedentocht, la mitica corsa sui canali ghiacciati delle città della Frisia, che non si disputa dal 1997 sempre a causa dell’aumento delle temperature, è il segno di come i cambiamenti climatici siano il grande game-changer degli sport invernali. Ovviamente il freno alle tendenze apocalittiche è dato dagli impianti di innevamento artificiale, e il cuore tecnologico e industriale dei Giochi cinesi da questo punto di vista è italiano, della Technoalpin di Bolzano. Tuttavia non è la stessa cosa, sia per i paesaggi di gara, che da anni stanno perdendo il candido incanto fiabesco della mitologia norrena, sia per la resa agonistica, dato che le alte temperature sono in grado di compromettere tanto le nevi naturali quanto quelle artificialmente prodotte.

Senza contare poi il tema della sostenibilità ambientale ed energetica. Da questo punto di vista, dentro ai nuovi scenari climatici sci e tavola non hanno lo stesso coefficiente di adattamento. Certo, anche lo snowboard ha bisogno di montagne e paesaggi innevati. La tavola però, soprattutto nelle sue declinazioni acrobatiche, sembra adattarsi meglio dello sci alpino o di fondo alla conseguente evoluzione infrastrutturale degli sport invernali, quella degli ski center indoor urbani, che ha nella Cina il suo centro di elezione, vista la trentina di centri sciistici indoor costruiti nell’ultimo decennio, tra cui spiccano quello recentemente inaugurato a Chengdu, o quello ancor più faraonico aperto ad Harbin nel 2017. Un salto acrobatico di Shaun White può produrre spettacolo e generare emulazione anche all’interno di sofisticati capannoni metropolitani, le emozioni di Kitzbuhel o di Holmenkollen non possono semplicemente esistere in spazi artificiali. È una rivoluzione geografico-climatica che comprende anche il Golfo Persico (a Dubai il Mall of Emirates è un polo sciistico in costante crescita) e non è peregrino immaginare nel giro di qualche decennio l’approdo nel Golfo Persico anche delle Olimpiadi invernali. A colpi di tavola, più che di sci, e in omaggio al principio marino.

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