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È morto Maurizio Zamparini, presidente del calcio supermercato

Enrico Veronese

Esaltò prima Venezia e poi Palermo, prima di intristirle e abbandonarle; esonerò decine e decine di allenatori, giocando d'azzardo con il calcio della Serie A

La mattina del 22 luglio 2002 un torpedone pieno di professionisti del calcio partì da Pergine Valsugana, in Trentino, per raggiungere Longarone, nelle Alpi bellunesi. Non si trattava di una trasferta estiva qualunque, una partitella contro i dilettanti, ma del Vajont per le speranze sportive di due città: Venezia e Mestre, da solo quindici anni fuse nel pallone. Dall’altro lato della medaglia, un altro popolo poteva cominciare a sognare: il Palermo, allora in ritiro ai piedi del monte Toc, destinazione del pullman partito con a bordo Pippo Maniero, Arturo di Napoli, Igor Budan, Mario Santana, Generoso Rossi, Fabio Bilica, Kewullay Conteh, Stefano Morrone, Antonio Marasco, Francesco Modesto, una manciata di giovani promesse, l’allenatore Ezio Glerean e il direttore sportivo Rino Foschi. Artefice di un blitz tanto inaudito quanto sconcertante fu Maurizio Zamparini, imprenditore friulano dei Mercatoni che dalle sue iniziali portavano pomposamente il nome: l’uomo aveva acquistato da poche settimane la squadra siciliana, che si barcamenava in Serie B agognando speranze di risalita ai fasti degli anni Cinquanta. E non pensò niente di meglio che trasferire un’intera rosa, il know-how e l’avviamento da un capo all’altro del paese, in pieno stile da delocalizzatore del nordest: il suo Venezia 1907 (già VeneziaMestre, idea sua anche l’allora contrastata fusione) era appena retrocesso dalla categoria maggiore, e si trovò di punto in bianco a dover racimolare atleti, dirigenza e financo il materiale tecnico per potersi iscrivere in extremis al campionato cadetto. Queste sliding doors della storia calcistica nazionale hanno aperto una nuova storia, mutando integralmente la rispettiva opinione: se in laguna i fasti della Serie A, di Novellino e Recoba furono presto offuscati dalla polvere del risentimento verso colui al quale premeva solo la costruzione del nuovo stadio a Tessèra, nella Conca d’Oro iniziavano a sognare in grande, complice l’arrivo sul mercato di autentici campioni recati in dote dal fiuto di Foschi.

Nel giro di pochi anni da Palermo passarono Cavani, Toni, Iličić, Grosso, Pastore, Miccoli, Dybala, Belotti, Vazquez, Corini, Barzagli, Balzaretti, Zaccardo, Bresciano, Fabio Simplicio e moltissimi altri calciatori di grande livello: le maglie rosanero se la giocavano da pari a pari con le big, spesso ne espugnavano il terreno, mettendo in mostra un gioco scintillante e godendo del trasporto emotivo di una piazza calda come poche. Ma Zamparini, era chiaro, produceva le pentole senza i coperchi: non si faceva tempo ad affezionarsi e a crederci, che il presidente cambiava allenatori come fossero calzini, bastava una smorfia verso certe vendite inopinate o l’accantonamento di crac pagati a peso d’oro. Guidolin, Gasparini, Delio Rossi, Mangia, Iachini, Colantuono, Ballardini, Stellone furono solo alcuni dei giubilati, anche più volte, indipendentemente dalle fortune espresse sul campo in quel momento. Zamparini – come Enrico Preziosi al Genoa, altro giocatore d’azzardo il cui nome è rimasto marchiato dal Venezia – divenne sinonimo di esonero facile, di inaffidabilità, di Penelope. Fino a quando, accortosi che ormai non era più possibile competere per qualcosa di più della qualificazione in Europa League, e rimettendoci pure molte risorse, mollò la squadra ai primi affaristi di passaggio, senza manco curarsi di porla in sicurezza: e anche in Sicilia, come in Veneto, furono fallimenti in tribunale, lunghe retrocessioni, ricostituzioni faticose, ardite risalite.

La vecchiaia recò a EmmeZeta nuovi dispiaceri, più personali: gli arresti domiciliari per falso in bilancio (poi revocati) e la prematura scomparsa del figlio Armando, avvenuta pochi mesi fa a Londra, quando ormai il padre era fuori dalla scena. Maurizio Zamparini è morto la scorsa notte all’ospedale di Ravenna, aveva ottant’anni: e in cuor suo non avrà mai dimenticato una domenica di novembre, alla Favorita, quando il Venezia degli straccioni e degli scarti (allenato da quel signore di Gianfranco Bellotto) dopo una partita leonina si impose sul Palermo dei tantissimi ex arancioneroverdi. Segnò Paolo Poggi, bandiera nata di fronte allo stadio Penzo e tornata in soccorso alla causa nel momento del bisogno: una lezione a chi pensava e praticava il calcio come un gigantesco supermercato dalle porte girevoli, senza cuore né storia.

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