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Il Foglio sportivo

L'italian style di Simone Inzaghi

Giuseppe Pastore

L'allenatore dell'Inter ritrova la sua Lazio, l’unica squadra che lo ha battuto in campionato all'andata

Simone Inzaghi ha trascorso la mattina dell’Epifania camminando in silenzio sul prato del Dall’Ara, in uno scenario più simile a un déjeuner sur l’herbe che a una partita di serie A. Forse ha avuto il tempo di ricordarsi di quando il campionato era stato spezzato dal Covid con la sua Lazio a un solo punto di distacco dalla Juve capolista, proprio dopo una vittoria contro il Bologna.
Nello stato di assurdità permanente in cui versa il calcio italiano, avviluppato in un groviglio di burocrazia alla “Brazil” troppo soffocante per persone normali, è consolante vedere primo in classifica un allenatore di questo tipo. Non è un uomo da frasi storiche né da gesti epici: il massimo del repertorio sta nelle ripetute invasioni di campo con cui, in preda alla stessa irrefrenabile foga agonistica che condivide col fratellone, cerca di dare istruzioni alla squadra per poi presentarsi sfiatato alle interviste post-partita.
Anche grazie alle vittorie a catena, all’Inter ha un po’ dimenticato la tendenza alla lagna automatica che rischiava di degradarlo a macchietta, e così vederlo sbracciarsi e sbraitare, spesso verso l’arbitro, dà una sensazione quasi rassicurante: ecco l’ultimo allenatore italiano, o perlomeno l’allenatore più italiano del campionato. Gli incroci del calendario portano Simone Inzaghi nuovamente al cospetto della sua Lazio nella sera del 122° compleanno della società biancoceleste, fondata il 9 gennaio 1900. Risale all’andata l’unica sconfitta in campionato dell’Inter, a causa di un tracollo tattico e mentale nell’ultima mezz’ora che lo fece arrabbiare molto. Da calciatore/allenatore Inzaghi ha vinto dieci dei sedici trofei dell’intera storia laziale: oltre il 60%. In alcuni è stato marginale e in altri decisivo anche con piccoli contributi alla causa come nella Supercoppa Europea 1999, vinta a Monte Carlo contro il Manchester United del “treble”, quando – per dirla alla Woody Allen – colpì con una fortissima nasata il gomito appuntito di Jaap Stam, abbandonando la partita a metà primo tempo in una cascata d’insulti verso il difensore olandese. Il truce Stam, con una di quelle frasi a effetto che riempiono le autobiografie dei calciatori, scrisse: “Avrei avuto più paura se fossi stato minacciato da un Teletubby”. Secondo indizio di italianità: Simone Inzaghi è abituato a essere sottovalutato.


Del resto gli emiliani sono un popolo di iper-italiani, come scriveva Edmondo Berselli, grande cantore dell’Emilia “che è contemporaneamente il Nord del Sud e il Sud del Nord”. Piacentini di origine, gli Inzaghi sono nati vicino al confine con la Lombardia, impregnati di foschia e dell’ingegno operoso della Bassa Padana, dove il bar è una dimensione importante quanto il pallone per cementare le amicizie virili coltivate nella noia degli anni Novanta, nei sogni di fuga e nel gioco a oltranza. Una vocazione affinata nel campetto in cemento di San Nicolò, frazione di un comune che porta il poetico nome di Rottofreno, dove oggi Simone possiede tre ville; e nelle partite a bugiardino, un misto di briscola e scopa (con carte ovviamente piacentine), abitudine che Inzaghi ha trasferito anche alla Lazio, sfogando la tensione del pre-partita con lunghe maratone contro Angelo Peruzzi, il magazziniere Walter e il cuoco Giocondo. Nomi e situazioni da canzone nebbiosa di Ligabue o da poesia di provincia di Max Pezzali: non del tutto a caso, due interisti.


Con ogni probabilità l’emiliano Simone Inzaghi non diventerà mai un brand mondiale come la Ferrari o Pavarotti, ma scommettiamo che la sua etica del lavoro, una passione da cui bada bene a non farsi divorare, lo manterrà in alto per parecchi anni. Se Pippo da allenatore ha proseguito un po’ per caso un po’ per convinzione sulla strada di un calcio malizioso e opportunista e difatti si trova a proprio agio soprattutto in serie B, Simone ha sviluppato l’italianità in un modo brillante su cui sei anni fa in pochissimi avrebbero puntato. Prima l’italiano che fa di necessità virtù, doti messe in mostra alla Lazio dove ha rattoppato più di una volta i mercati asfittici di Lotito & Tare, valorizzando al massimo (e anche oltre) giocatori come Milinkovic-Savic, Luis Alberto, Immobile, Acerbi, Luiz Felipe in modo che i vari Jony, Vavro, Muriqi, Berisha diventassero semplici parentesi su cui glissare amabilmente. E adesso l’italiano che si adatta: all’Inter è salito su una macchina da 91 punti abbandonata in corsa dal pilota, difficilmente migliorabile e anzi facilmente peggiorabile dopo le partenze di Lukaku e Hakimi e la rinuncia a Eriksen, ha cancellato dalla memoria breve dei giocatori la faccia feroce e la martellante ossessione di Antonio Conte e le ha sostituite con altre parole chiave: serenità, responsabilità.

 

Difficilmente Inzaghi comunicherà alle tre di notte l’orario dell’allenamento del giorno dopo, come dicono amasse fare il suo predecessore. Difficilmente userà la prima persona singolare per prendersi un merito o denunciare un ammanco, guaribile solo col mercato. “Le decisioni sono dei giocatori” è una frase che possiede un profondo senso di svolta e maturità, proprio in un’epoca in cui tanti presidenti vanno alla ricerca spasmodica dell’allenatore-guru, ingrigito e assertivo, essenzialmente per nascondere le ristrettezze finanziarie che impediscono di rafforzare la rosa. Simone Inzaghi aderisce perfettamente alla nuova filosofia e così nel giro di cinque mesi l’Inter 2021-2022 ha scoperto di avere molti più leader di quanti ne avesse la versione precedente: valga per tutti Brozovic, l’uomo col ritmo nel sangue, in scadenza di contratto ma non si direbbe, immancabile in tutte le top 11 del girone d'andata. Ma si può andare avanti, da Skriniar a Bastoni, da Dzeko a Lautaro e giù fino a Calhanoglu, su cui Inzaghi progetta lo stesso lavoro fatto su Luis Alberto. Anche al netto delle ottime prestazioni autunnali grazie alle quali a dicembre è stato eletto “giocatore del mese”, l’umorale turco sembra ancora più a suo agio con la palla ferma che non in movimento, e ancora le sue partite sono fatte di lunghe pause interrotte da un tracciante improvviso o da un calcio piazzato al veleno. Il progetto a breve termine è continuare a modellarlo e modularlo sull’intensità che ha dato a Luis Alberto, che oggi appare scocciato da un allenatore che non capisce e da un sistema di gioco che non condivide ma nelle stagioni laziali di Inzaghi si era espresso a lungo da miglior centrocampista del campionato.


Da ottimo interprete della modernità, Inzaghi invece sa farsi concavo e convesso, adeguando il suo 3-5-2 al contesto e ai giocatori a disposizione, sempre facendo grande attenzione a non scavalcarli in meriti e visibilità: dote che condivide con Stefano Pioli – curiosamente, l’allenatore di cui aveva preso il posto alla Lazio – e non dev’essere un caso che oggi siano primo e secondo in classifica. Anche i suoi tic verbali, dal celebre “spiaze” all’assolutorio “Non ricordo parate di Strakosha” che soleva dire alla Lazio, sono più automatismi verbali da normale calciatore italiano che non particolari civetterie personali. Simone Inzaghi annulla sé stesso, non avoca a sé l’esclusiva del dibattito, parla di rado e quando lo fa (come alla Gazzetta dello Sport lo scorso 24 dicembre) offre titoli radi e marginali, soprattutto di buon senso: in questo è una notevolissima eccezione in un’epoca in cui l’allenatore è costretto dalle circostanze a farsi personaggio, dovendo a volte supplire alle mancanze dialettiche dei suoi dirigenti (da questo punto di vista, l’Inter è messa benissimo). Di solito quelli così sono anche i più innamorati del proprio lavoro: anche se non ci daranno mai il brivido della sparata né mai interpreteranno il ruolo con la tragicità del vigile del fuoco su un cornicione, che il calcio ce li conservi a lungo.

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